"Che di necessità qui si registra": l'anonimato e il progressivo abbandono dell'individualità empirica
Dante e Beatrice verso il cielo del Sole, La Divina Commedia di Alfonso d'Aragona, metà XV secolo, British Library, Londra. |
La maggior parte dei commentatori della Divina Commedia spiegano che Dante si scusa di essersi citato per due motivi. Anzitutto perché le regole della retorica classica vietano agli scrittori di citarsi nelle loro opere, a meno che, come scrive lo stesso Dante nel Convivio (I, 2-3), parlare di sé stesso grandissima utilità ne segua altrui, non giovi, cioè, ai lettori (come, per esempio, nel caso delle Confessioni Sant'Agostino). In secondo luogo, Dante cita sé stesso non per vantarsi, ma per umiliarsi. È la prima delle terzine con cui Beatrice lo esorterà a confessare di aver abbandonato la retta via. Nel canto successivo, infatti, Dante avrebbe fatto atto di contrizione: Piangendo dissi: "Le presenti cose/ col falso lor piacer volser miei passi,/ tosto che’l vostro viso si nascose" (XXXI, vv. 34-36). Si ripresenta qui uno dei grandi temi della Divina Commedia, il tema dell'umiltà. Come ho scritto in un articolo precedente, l'umiltà non è soltanto un valore morale tipico della tradizione cristiana, valore sbeffeggiato e accusato di aver infiacchito gli animi europei per malcelati fini di dominio; ma si tratta di un valore che può travalicare il ristretto ambito della morale per esercitare un influsso fondamentale sulla vita dello spirito nel suo complesso. L'orgoglioso, il superbo, come c'insegna Dante, è un cieco, non ha la chiara percezione dei suoi limiti, sia in quanto uomo fra gli uomini (per quanti talenti e capacità egli possa avere), sia in quanto individuo di fronte all'Assoluto (o di creatura di fronte al Creatore, secondo il linguaggio teologico). Non si accorge, cioè, della limitatezza della sua individualità empirica, dell'essere un alcunché di ontologicamente dipendente, che non ha in sé, per dirlo con Spinoza, la necessità della sua propria natura. I superbi che Dante incontra durante la sua discesa verso Lucifero (paradigma di ogni superbia, di ogni illusoria separazione da Dio) gli si ergono tutti grottescamente di fronte, incapaci ancora di rendersi conto dell'orribile destino che si sono guadagnati. Si pensi a Capaneo, che ancora sfida Giove affinché lo fulmini con una delle sue folgori (Inferno, XIV, 43-72). O anche al grande ghibellino, a Farinata degli Uberti, che s'ergea col petto e con la fronte/ come s'avesse l'inferno a gran dispitto (Inferno, X, 35-36). Peccato che Dante lo veda dalla cintola in su, che quell'uomo così altero spunti da un buco nel terreno, da una posizione che ne sminuisce il contegno sdegnoso che tiene durante tutto il dialogo con Dante. Che poi Dante rispetti il grande ghibellino, è altra cosa. Ne rispetta il valore e la grandezza di condottiero, ne rispetta l'individualità empirica, e tuttavia non si sottrae dal dannarlo. Farinata, per quanto grande uomo fra gli uomini, è uno stolto che non ha saputo riconoscere la propria vera natura, forse traviato dalla visione del mondo che abbracciò, forse accecato dalla sua propria grandezza mondana.
Nel suo viaggio attraverso i tre regni prima Dante si confronta, quindi, con l’individualità empirica che ha condannato sé stessa alla separazione da Dio per orgoglio (la manifestazione morale della solidificazione esistenziale e ontologica degli individui, incapaci di riconoscersi sia parti di un tutto – la città, l’impero, la cristianità – sia di dover a Dio la propria esistenza e la propria essenza imperitura); poi, nel Purgatorio, si netta dalla caligine del mondo, cioè rimuove progressivamente le scorie via via meno pesanti della propria individualità empirica, scorie che si manifestano nell’agire morale e nel sentire, condensate nei sette vizi capitali; infine, nel Paradiso, procede al progressivo spogliarsi della propria individualità (trasumanare, che Dante significativamente dice significar per verba/ non si poria, Paradiso, I, 70-71)), fino al culmine, allo smarrirsi della mente (l’organo separativo per eccellenza) nell’infinità divina.
Vista dal Paradiso (sub specie aeternitatis, per citare ancora Spinoza), la necessità di registrare il nome risulta tale soltanto in un momento ben preciso del cammino di risalita al Primo principio di tutte le cose. È una necessità contingente, se mi permettete l'ossimoro. L'esperienza dell'uomo Dante narrata nel poema è fondamentale per la sua esemplarità, perché mostra concretamente agli individui l’intero percorso d’ascesi e di purificazione. Ma di per sé il pudore a nominarsi ha una motivazione ben più profonda, una ragione metafisica: di fronte all'Assoluto le individualità non hanno alcun significato, non hanno alcun valore. Conta soltanto il cammino che taluni intraprendono per tornare a casa, per tornare all'Assoluto (e reducemi a ca per questo calle, dice Dante di Virgilio interrogato da Brunetto Latini nel quindicesimo canto dell'Inferno). L'anonimato è, quindi, una scelta, una condizione esistenziale cui ci si sforza di rimanere fedeli; ma è anche, e soprattutto, uno scopo, una meta: l'Assoluto cui si cerca di riunirsi è l'Anonimo per eccellenza, ciò che è senza nome né forma – che è al di là di ogni nome e di ogni forma.
Sandro Botticelli, La Divina Commedia, Purgatorio, canto XXXI, 1480-1495, Kupferstichkabinett, Staatliche Museen zu Berlin - Preußischer Kulturbesitz, Berlino. |
Opere citate o utilizzate per la stesura dell'articolo:
- Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Mondadori, Milano 1994;
- René Guénon, Il regno della quantità e i segni dei tempi, trad. it. Adelphi, Milano 1995.
La riproduzione della miniatura della Divina Commedia di Alfonso d'Aragona è stata tratta da Folia magazine; quella del manoscritto di Botticelli da Google Arts & Culture.
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