Storia e passato
Charles Laughton nei panni di Sir Wilfrid Robarts. |
La Penisola italiana nel 1843. |
La penisola italiana, prima del 1860, era divisa, com'è noto, in diversi stati e staterelli, alcuni sovrani, altri direttamente o indirettamente controllati da potenze straniere. Le campagne sabaude, nel giro di un ventennio, la unirono in un'unica entità statuale, il Regno d'Italia, con capitale, dal 1870, Roma. Ora, quegli stati in cui la Penisola era suddivisa, erano, sì, frutto di almeno tre secoli di politica delle potenze europee (dalle Guerre d'Italia cinquecentesche tra francesi e spagnoli alle Guerre di successione settecentesche, dalle Guerre rivoluzionarie francesi al Congresso di Vienna), ma riflettevano anche lo stato concreto delle popolazioni delle varie parti d'Italia. La questione della lingua era una delle spie più evidenti delle profonde differenze tra le varie popolazioni italiani. "Supponete dunque" scriveva Alessandro Manzoni "che ci troviamo cinque o sei milanesi in una casa, dove stiam discorrendo in milanese, del più e del meno. Capita uno; e presenta un piemontese, o veneziano, o un bolognese, o un napoletano, o un genovese; e, come vuol creanza, si smette di parlare milanese, e si parla italiano. Dite voi se il discorso cammina come prima; dite se non dovremo ora servirci di un vocabolario generico e approssimativo [...] ora aiutarci con una perifrasi, e descrivere, dove prima non s'avrebbe avuto far altro che nominare; ora tirare a indovinare, dove prima s'era certi del vocabolo che si doveva usare, anzi non ci si pensava, veniva da sé; ora adoperare per disperati il vocabolo milanese, correggendolo con: come si dice da noi." Le differenze, ovviamente, non si limitavano alla lingua: costumi, usanze, istituzioni, leggi, ecc. Tutto differiva, in certi casi in maniera rilevantissima, da uno stato all'altro della Penisola. Quelle suddivisioni territoriali non erano, insomma, suddivisioni astratte come quelle, che so, che tracciarono in Medio-Oriente Francia e Inghilterra all'indomani della Prima guerra mondiale con l'accordo Sykes-Picot, ma riflettevano, in maniera più o meno corretta, lo differenze esistenti tra le varie popolazioni italiane. Solo un elemento accomunava tutti gli abitanti della Penisola: la religione cattolica. Il nuovo Stato unitario, tuttavia, era nato in opposizione alla Chiesa, di cui la Questione romana era la manifestazione più evidente, ma, forse, non quella più importante. L'Italia post-unitaria si usa chiamarla liberale non per caso: fu una compagine statale laica e anticlericale, in cui l'opposizione alla Chiesa cattolica andava ben al di là del semplice problema di Roma capitale o del potere temporale dei papi, per altro risolti gordianamente con la Breccia di Porta Pia. Erano due visioni del modo tra loro in conflitto: il neonato Stato italiano aveva come faro la Francia illuminista e progressista, con tutti i distinguo del caso, tra cui la questione del suffragio e dell'accesso al potere. Si opponeva, insomma, in via di principio al cattolicesimo romano. Così l'unico vero elemento unificatore delle popolazioni italiane fu non solo messo da parte, ma anche avversato, arrivando a presentare la storia italiana dai Longobardi in poi come la storia di un popolo la cui unione era stata ostacolata dal potere d'una Chiesa che travalicava i limiti stessi impostile dalla fede cristiana (ipotesi storiografica non del tutto peregrina, a dire il vero). Gli ideologi del Risorgimento e quelli del Regno furono così costretti a cercare di costruire l'italianità attraverso l'unione dell'epopea di liberazione risorgimentale (adeguatamente purgata dagli elementi poco edificanti - ma questo accade sovente in circostanze simili) col progressismo scientista ottocentesco e con la storia di un'oppressione secolare (vera o presunta che fosse, a seconda del periodo storico) in cui lo "straniero" di turno e la Chiesa cattolica avida e traditrice erano andati a braccetto. I risultati furono, manco a dirlo, deludenti. Gli italiani non furono fatti.
Giorgio De Chirico, Piazza d'Italia, 1913, Art Gallery of Ontario, Toronto, Canada. |
Vent'anni sono un lungo periodo nella vita d'un uomo, ma poca cosa in quella di una nazione. Il fascismo fu spazzato via da quella Seconda guerra mondiale in cui aveva trascinato l'Italia con miope spavalderia. Non resse l'urto di un conflitto combattuto tra nazioni che l'Italia dell'epoca poteva soltanto scimmiottare. Nel dopoguerra, tuttavia, la fine del regime fu raccontata in ben altra maniera. Il fascismo - si diceva - fu rovesciato da un popolo che si ribellava a un ventennio di dispotismo, l'Italia diventò gioiosamente una Repubblica cacciando i monarchi vili e collusi col regime, una nuova costituzione proclamò il suffragio universale e i diritti dell'uomo, e i "liberatori" la arruolarono nel campo delle democrazie occidentali nella lotta mortale contro l'oscurantismo della tirannia comunista - oppure, gli altri liberatori (la salvezza e la perdizione arrivano sempre dagli stranieri, in Italia) attendevano che s'unisse al benefattore dei popoli (Stalin) nella lotta contro l'oppressione capitalista. Ecco, succintamente, il "racconto fondatore" della "nuova" nazione.
A seguito del proclama dell'8 settembre del 1943, a guerra ormai persa, i tedeschi avevano occupato la Penisola, diventata il terzo fronte per la Germania nazista. L'Italia, teatro dei combattimenti tra gli angloamericani e i tedeschi, si spaccò, dando vita a quella che, lungi dall'essere una guerra di liberazione dal fascismo, fu una guerra civile. Finita la guerra, giustiziato Mussolini e cacciato il re, la nuova Italia repubblicana si costruì, ideologicamente, con la negazione sistematica dell'Italia fascista e della sua eredità, negazione che giunse al ridicolo di mettersi tra i vincitori della guerra, tanto che non pochi furono tiepidi di fronte al miracolo che Alcide De Gasperi aveva compiuto durante la conferenza che portò alla frima dei trattati di Parigi del 1947. La Repubblica, insomma, nacque con una "rimozione". Una "nuova Italia", repubblicana e moderna doveva nascere dalla grande lotta partigiana di liberazione. E nacque davvero, questa volta, sebbene in maniera differente da quello che ci si sarebbe potuti aspettare.
Lascia o raddoppia?, puntata del 28 marzo 1956. |
"Re, primi ministri, arcivescovi, perfino degli avvocati sono stati alla sbarra". Secoli di storia inglese sono riassunti in questa frase. Secoli storia che sono secoli di passato, perché per un inglese la Gloriosa rivoluzione del 1688, la Guerra dei Sette anni, la Rivoluzione industriale, Waterloo, l'esplorazione ottocentesca delle più remote regioni del mondo, la Prima e la Seconda guerra mondiale sono un fluire continuo, una storia senza soluzione di continuità, un passato. L'italiano che si guardi alle spalle, invece, che cosa vede? Vede una storia a tratti magnifica, tra le più splendide dei paesi europei. Una storia che ha lasciato tracce mirabili in tutta la Penisola, ma tracce che gli sono tanto estranee quanto gli scavi archeologici di Pompei o le gradinate del Colosseo. La Napoli degli angioini, il Rinascimento fiorentino, il Barocco romano, i mille anni della Serenissima Repubblica di Venezia sono storie locali che non fanno parte dell'immaginario nazionale e che, oggi, non lo fanno nemmeno più di quello locale. Le nostre istituzioni sono il frutto di strani miscugli, un insieme di prestiti e scopiazzature un tempo dai francesi, oggi dagli anglosassoni, e da sopravvivenze da epoche ripudiate come il fascismo (si pensi all'assurda situazione della giurisprudenza penale, sospesa tra il codice penale d'impianto fascista e quello di procedura d'impianto anglosassone). Non sembra che nulla sia spontaneamente germogliato dal nostro suolo. O, meglio, quello che c'era di spontaneo, è morto da tempo. Le difficoltà della nostra lingua a stare al passo coi tempi, con la sovrabbondanza degli anglicismi che va ben al di là del disarmante provincialismo esterofilo, ne sono una testimonianza fin troppo palese. Siamo nella paradossale situazione di avere una Patria senza una tradizione nazionale, illusi d'appartenere a una nazione che, in realtà, non è mai nata, perché frutto di scelte dettate da visioni del mondo astratte e ideologiche, con la complicazione di un duplice cambio di regime politico, di cui l'ultimo è stato la negazione dei due precedenti. Che cosa ci rimane? La società massificata e consumista nata col Miracolo economico, una cultura mediatica nazional-popolare e un'ammirazione acritica per un paese che non capiamo e che non riusciremo mai a capire. Poco, molto poco, per affrontare l'inquietante nuovo mondo che si sta profilando all'orizzonte.
[La citazione di Manzoni è tratta C. Salinari C. Ricci, Storia della letteratura italiana, vol. 3, tomo 1°, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 2292; La cartina d'Italia e il fotogramma di Lascia o Raddoppia?, dalla versione italiana di Wikipedia; la foto del dipinto di De Chirico da Pinterest]
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