La distanza perduta. Alcune considerazioni su una massima cartesiana
Sébastien Bourdon, Ritratto di Cartesio, Parigi, Musée du Louvre. |
Nella prima parte del Discorso Cartesio ci narra degli studi fatti nel collegio gesuita de La Flèche e dei suoi primi dubbi riguardo alla consistenza del sapere che aveva ricevuto. Persuasosi dell'infondatezza delle conoscenze dell'epoca, e saziato dalla lettura di libri in cui non sperava più di trovare alcunché di solido, decise d'abbandonare la Francia e di mettersi a viaggiare per l'Europa. Era in Germania, chiuso al caldo in una stanza ben riscaldata, quando elaborò le sue quattro celebri regole metodologiche con cui avrebbe affrontato il temerario compito di ricostruire l'edificio del sapere che aveva appena riconosciuto esser senza fondamenta. Tuttavia Cartesio è consapevole che non può abbattere la casa che fino a quel momento lo ha riparato dalle intemperie senza prima averne approntata una provvisoria. Fuor di metafora, Cartesio, pur resosi conto che il cosiddetto sapere non è altro che un'accozzaglia di pseudo-conoscenze, allo stesso tempo è consapevole che abbandonarle significa rimanere privo dei precetti morali che su quelle credenze si poggiano. Pur avendo scelto di condurre una vita ritirata, Cartesio non può comunque fare a meno d'indicazioni morali. Non avendo optato per l'eremitaggio, continuerà ad avere a che fare cogli uomini. In qualche modo dovrà pure regolarsi. Così elabora un altro dei punti celebri del suo pensiero: la morale provvisoria. Provvisoria perché, una volta ricostruito l'edificio del sapere, potrà finalmente dedurre da esso una morale definitiva, le cui prescrizioni siano inattaccabili (Cartesio, com'è noto, non giunse mai neppure a intraprendere il tentativo d'elaborare un'altra morale. La morte lo colse improvvisamente in Svezia, alla corte della regina Cristina, dove si trovava per far da precettore alla celebre sovrana che più tardi si sarebbe convertita al cattolicesimo). Di questa morale provvisoria, m'interessa la prima massima.
La prima [massima] era di obbedire alle leggi e ai costumi del mio paese, conservando fedelmente la religione in cui Dio mi ha fatto la grazia di essere educato fin dall'infanzia, e regolandomi in tutto il resto secondo le opinioni più moderate, più lontane dagli eccessi, comunemente praticate fra le persone fornite di maggiore buon senso fra quelle cui mi sarei trovato.Con questa massima Cartesio rinuncia a formarsi giudizi secondo le proprie opinioni, e decide di confarsi a quelle di altri. Ma chi sono questi altri? La scelta di Cartesio è una scelta di prossimità, sia spaziale sia esistenziale. Anzitutto la fede che gli è stata trasmessa, quel cattolicesimo che allora viveva i violenti chiaroscuri della Controriforma trionfante. Cartesio non rinunciò mai alla sua appartenenza romana, né, in vita sua, s'occupò direttamente di teologia. Cercò di tenersi sempre alla larga dalle spinose questioni che all'epoca facevano agitare le penne e rombare i canoni (si tengano presente non solo gli eventi traumatici che coinvolsero i dotti dell'epoca, come il rogo di Bruno o l'abiura di Galileo, ma anche, e sopratutto, la lunghissima e sanguinosissima Guerra dei Trent'anni, durante la quale si svolse la maggior parte della vita del Cartesio adulto). Cosa lo spingesse, se il timore per la propria vita, o l'insofferenza per le tribolazioni che il suo pensiero avrebbe potuto provocare (e che, puntualmente, provocò, quantomeno come influenza su filosofi che a lui in qualche modo s'ispirarono, da Spinoza ai materialisti settecenteschi), oppure una sincera obbedienza alla Chiesa di Roma, anche quando, vivendo nella tollerante Olanda, avrebbe potuto allontanarsi dalla fede cattolica senza conseguenze per l'incolumità della sua persona; cosa lo spingesse, è difficile stabilirlo. D'altronde il suo motto fu "Larvatus prodeo", cammino mascherato, chiarissimo nella nebbia con cui vuole celare la sua persona.
All'obbedienza alla fede cattolica Cartesio affianca un'altra obbedienza, meno netta ma, forse, altrettanto vincolante: la scelta di "regolarmi sul modello di coloro con cui avrei dovuto vivere". Significa forse che Cartesio avrebbe seguito l'antica massima italiana "in Chiesa coi santi, e in taverna coi ghiottoni"? Affatto. Cartesio restringe subito il campo: avrebbe scelto solo le più moderate, "sia perché sono sempre le più agevoli a praticarsi, e verosimilmente le migliori, dato che ogni eccesso è di solito poco raccomandabile; sia anche per scostarmi dal retto cammino, in caso di errore, meno di quanto sarebbe avvenuto scegliendo uno degli estremi mentre andava seguito l'altro". Cartesio rifugge anzitutto dagli eccessi, ossia da tutte quelle posizioni che avrebbero potuto arrecargli turbamento. Nelle sue parole riecheggia l'antica aurea mediocritas, quella via di mezzo che Aristotele aveva detto essere la definizione della virtù, un equilibrio tra due estremi parimenti viziosi. Tuttavia bisogna non solo ricordare la provvisorietà di questi precetti morali, ma anche la strumentalità che essi hanno per Cartesio. Le opinioni moderate sono le più agevoli a praticarsi, quelle per cui si corrono meno rischi. E Cartesio cercava, appunto, di correre meno rischi possibili. Camminare mascherato significa anche questo: confondersi con la folla, non spiccare, non attirare l'attenzione affinché la quotidianità scivoli via fluida, senza intoppi. Una scelta per garantirsi quella libertà e quella tranquillità necessarie per portare avanti il suo progetto di rifondazione del sapere. Cartesio insiste sull'importanza della libertà, e chiama eccesso "tutte le promesse che comportano una parziale rinuncia alla propria libertà". Queste parole si ricollegano alle discussioni dell'epoca sull'equiparazione tra i voti religiosi e i contratti commerciali, allora un problema vivamente sentito sopratutto dagli uomini di chiesa. Ma soprattutto implicano il rifiuto di rinunciare, col passare del tempo, a cambiare idea, a sentirsi vincolato a un'idea o a un'opinione un tempo approvata e adesso considerata erronea. "Avrei ritenuto di peccare contro il buon senso se, per il fatto di approvare qualcosa allora, mi fossi impegnato a ritenerla buona anche in seguito, quando forse avrebbe cessato di esserlo, o io avrei smesso di considerarla tale". La libertà di cambiare idea, d'abbandonare un'opinione che un tempo avevamo abbracciato. Permanere fedeli a un'idea non è affatto un segno di elevatezza morale, ma di caparbietà e anche d'abbandono della libertà intellettuale e di quel quotidiano lavorio interiore di chi non s'adagi per comodità, pigrizia od ostinazione. Il buon senso - che Cartesio dice di voler seguire fin tanto che non avrà trovato quelle verità che gli permetteranno di fondare un'etica su basi sicure e indubitabili - suggerisce di non vincolarsi a vita a un'opinione perché nulla al mondo resta uguale a sé stesso, né ciò che troviamo fuori di noi, né quello che ci accade dentro. Il mutamento è la regola. Vincolarsi, dunque, è un eccesso frutto d'avventatezza e sconsideratezza.
Umberto Boccioni, Rissa in galleria, 1910, Milano, Pinacoteca di Brera |
Anche la possibilità di cambiare idea quando lo si ritenga più opportuno è invisa al mondo contemporaneo. Dichiarare di lasciarsi le mani libere sarebbe accolta dai più come un'insopportabile manifestazione d'impudenza e sfacciataggine. Dietro vi si riterrebbero riposte le peggiori intenzioni e celati i più infami sentimenti: dal perseguire ad ogni costo il proprio tornaconto fino all'egoismo più gretto e meschino. Il problema, in questo caso, è la politicizzazione della società che è andata a crearsi a seguito della Rivoluzione francese, e che oggi, nel precipitare del dibattito pubblico - almeno in Italia - in grossolani alterchi da bar dello sport, si è incancrenita in uno strillio tra monologanti volgari, arroganti ed esibizionisti. Ogni atto, ogni affermazione, persino ogni silenzio è letto alla luce dell'aderenza a una determinata posizione politica. La spassionatezza è andata perduta. Quando s'azzardano osservazioni che escono dal recinto di banalità "politicamente corrette" o "rispettose di ogni diversità", si viene subito guardati con sospetto, oppure etichettati come estremisti (di destra o di sinistra, a seconda, più che di quello che si dice, dell'interlocutore che disgraziatamente ci troviamo di fronte) e aggrediti verbalmente di conseguenza. Non è andato perduto il gusto dell'analisi di ciò che ci circonda, analisi che sarebbe opportuno precedesse scelte e affermazioni pubbliche, e che potrebbe, in certi casi, impedirle indefinitamente (se non costretti dalle circostanze, perché bisogna sempre sentirsi obbligati ad abbandonare un decoroso e ragionevole scetticismo?); è andata perduta l'idea stessa dell'analisi indipendente da ogni considerazione concreta, politica o morale che sia. Ecco perché un'affermazione che riecheggi quella cartesiana sarebbe letta come la sfrontatezza di un trasformista. Si può concedere che il sospetto, nell'Italia contemporanea perlomeno, è più che comprensibile, considerato quanto abbiamo visto negli ultimi decenni; ma non è questo il punto. Il problema è ciò che è andato perduto: un atteggiamento nei confronti del mondo e della vita che faceva della moderazione, della riflessività e dell'attesa, virtù, e dell'avventatezza, dell'irruenza e dell'impulsività, vizi. Persino certi termini, oggi, sono così carichi di politica che è divenuto difficile usarli nel loro significato originario. Si rischia di essere fraintesi, risucchiato com'è tutto nel gorgo marcescente della rissa politica contemporanea. Non si fraintendano le mie parole: non ritengo la degenerazione attuale dell'Italia il problema. Il problema è la politicizzazione dello spazio pubblico e della vita che ne è a monte. Molto ha dato, ma anche molto ha tolto, come tutto ciò che appartiene alla sfera dell'umano.
[Cartesio, Discorso sul Metodo, trad. it Laterza, Roma-Bari 2006; il ritratto di Cartesio è tratto dalla Web Gallery of Art; il dipinto di Boccioni è tratto dal Mark Harden's Artchive]
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