"Frode è de l'uom proprio male": il fondamento oggettivo dell'ordinamento dell'Inferno dantesco
Delle tre cantiche di cui è composta la Divina Commedia, l’Inferno è sicuramente quella più letta e amata dai lettori moderni. I dannati che Dante v’incontra hanno caratteristiche che li rendono più vicini alla mentalità e al sentire dell’uomo contemporaneo. Illustri lettori e interpreti otto-novecenteschi sono persino giunti a lamentare che Dante si sia lasciato “sviare” dall’opprimente e “sterile” apparato teologico medievale, che avrebbe impedito al suo acutissimo sguardo di poeta di scandagliare fino in fondo l’animo umano. Così ne lodano “l’umanità” che mostra nei confronti dei più celebri fra i dannati (si pensi a Francesca da Rimini, a Pier delle Vigne, a Brunetto Latini) e ne biasimano le condanne, frutto d’un moralismo cieco e ottuso, dovuto a una “sovrastruttura” teologico-metafisica che cercava d’imbrigliare la “realtà” con categorie che gli impedirono d’abbracciarla pienamente nella sua proteiforme concretezza. Come se, insomma, la mente e l’animo di Dante fossero scissi: da una parte il suo sguardo sul “reale”, lucido e penetrante quanti pochi nella storia della civiltà (io aggiungerei occidentale, ma i campioni del pensiero della terra dove il sole tramonta, non sorge, hanno l’abitudine d’identificare la civiltà occidentale con la Civiltà, e le “verità” occidentali con la Verità), sguardo che, rispetto a quello del proprio tempo, riuscì a penetrare l’animo umano come pochi altri prima, e la cui poesia avrebbe aperto nuove vie a quegli ingegni finalmente liberi di potersi esercitare sulla realtà senza i paraocchi della teologia; dall’altra l’aderenza a una religione e a una dottrina stantie e soffocanti, che castravano l’uomo e lo tenevano in uno stato di soggezione morale e intellettuale. Così questi lettori poterono trascegliere dalla Commedia quei passi del Dante “moderno”, gemme degne d’essere riverite e conservate, tralasciando il pesante e farraginoso strame medievale, buono solo per antiquari o studiosi di storia dell’Età di mezzo.
Per fortuna da qualche decennio a questa parte sono apparsi studi che non solo hanno mostrato l’unità dell’opera dantesca, ma che hanno sottolineato che la tanto vituperata “cappa” medievale è l’intimo motore della Divina commedia, che tanto le pagine “vecchie” del Paradiso quanto quelle “nuove” dell’Inferno hanno una comune origine: la visione cristiana del mondo in cui Dante fiorì (penso in particolare al commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi).
Ma non è mia intenzione neppure abbozzare una storia dell’immagine di Dante e della Divina Commedia nella cultura moderna, un compito arduo per le mie forze e che trovo, alla fine dei conti, poco stimolante. Quello che a me interessa dell’opera di Dante è la sua sempiterna vitalità. Ed è per questo che ho intenzione di dire qualcosa su una delle caratteristiche della Commedia che possono più sconcertare il lettore moderno: la ripartizione delle pene dell’Inferno.
Dante affronta il tema nel canto XI, dopo uno degli incontri più famosi e celebrati del Poema sacro, quello col ghibellino Farinata degli Uberti. Virgilio e Dante si sono appena lasciati alla spalle la piana degli eretici, i primi peccatori che hanno incontrato dopo aver attraversato le mura della città di Dite, mura che chiudono la parte più dolorosa dell’Inferno. Siamo sulla soglia del VII cerchio, dove i violenti scontano le loro pene. Prima di poter scendere a incontrare “più crudele stipa” (v. 3), Virgilio interrompe il cammino affinché il senso dell’olfatto di Dante si abitui al puzzo tremendo che sale dai cerchi inferiori (il “tristo fiato”, v. 12). Forzati a fermare momentaneamente la discesa, Dante, in una delle sue tante manifestazioni d’ardore conoscitivo, chiede a Virgilio di non lasciar passare invano il tempo che dovranno trascorre prima di accedere al VII cerchio. La guida del poeta fiorentino ne approfitta allora per descrivere e rendere ragione dell’ordinamento dell’Inferno.
Com’è noto, i dannati dell’Inferno dantesco si suddividono in tre grandi categorie: gli incontinenti, che occupano i cerchi dal secondo al quarto; i violenti, confinati nel settimo cerchio; e i fraudolenti, che troviamo negli ultimi due cerchi dell’infermo, l’ottavo e il nono. Restano fuori da queste categorie gli eretici, sepolti in tombe infuocate lungo le mura della città di Dite; gli spiriti di coloro che, pur non avendo infranto la legge divina, non conobbero la salvifica Parola di Cristo, racchiusi nel primo cerchio, il Limbo, dove hanno come pena la sempiterna lontananza da Dio; e gli ignavi, confinati nell’antinferno, costretti a rincorrere perennemente uno stendardo bianco mentre sono tormentati da innumerevoli insetti.
Quello che subito salta agli occhi di un uomo contemporaneo è la collocazione dei violenti: non si trovano nel fondo dell’Inferno, non sono, cioè, la colpa più grave di cui un uomo possa macchiarsi. Maggior lontananza da Dio e, quindi, maggior castigo, è riservato ai fraudolenti. Vediamo perché:
La prima terzina spiega cosa accomuna i dannati dal settimo cerchio fino a Lucifero: l’ingiuria (termine tecnico che indica la violazione di un diritto altrui) è lo scopo di ogni atto “malizioso”, ossia di ogni atto commesso non per la sola spinta della passione. Tuttavia, poiché la frode (nel senso d’inganno, artificio malvagio) è possibile solo all’uomo in virtù della sua natura razionale, viene punita più in basso e più duramente della violenza.
Osservando più da vicino, sempre dal punto di vista di un nostro contemporaneo, le colpe punite nelle Malebolge, la perplessità aumenta: in esse troviamo colpe che oggi sono considerate poca cosa rispetto alle violenze contro il prossimo. Prendiamo, per esempio, la baratteria, termine con cui nel Medioevo s’indicava la corruzione di pubblico ufficiale. Possibile che Dante abbia ritenuto più grave la corruzione degli omicidii e delle stragi? Altre colpe, poi, oggi non sono neppure considerate tali: ruffiani e seduttori possono in alcuni suscitare disgusto, così come gli adulatori (ma sospetto che l’adulazione come mezzo per raggiungere un determinato fine oggi sia vista come un segno di “malleabilità”, di capacità di adeguarsi alle circostanze). Ma nessuno si sognerebbe non dico di ritenere tale comportamento peggiore, ma neppure d’avvicinarlo alle stragi e agli assassinii. Invece Dante allontana da Dio più gli adulatori e i ruffiani dei tiranni e dei predoni. Alessandro Magno (dannato per la sua inestinguibile sete di sangue), Ezzelino III da Romano e Obizzo II d’Este (due feroci e sanguinari signori italiani del Duecento) sono posti più in alto del barattiere Ciampolo di Navarra o di Catalano dei Malavolti, uno degli ipocriti incontrato Dante.
Ma forse l’esempio migliore è quello del pistoiese Vanni Fucci. Dante lo incontra tra i ladri, dove s’imbatte in lui mentre una delle serpi che popolano la bolgia, dopo esserglisi avvinghiata addosso, lo fa incenerire. L’anima di Fucci si ricompone “di butto” (v. 105) nella figura originaria come la mitica araba fenice giunta al cinquecentesimo anno di vita. Ripresosi, il pistoiese risponde alla domanda di Virgilio, che gli ha chiesto chi fosse:
Dante conosce questo dannato, ma non s’aspettava di trovarlo punito tra i ladri, ma più sopra, tra i violenti contro il prossimo: “omo di sangue e di crucci”, appunto. Vanni Fucci, che aveva protervamente vantato l’amore per la “vita bestiale” (nella quale rientra appunto anche la violenza), non si sottrae alla domanda, ma prova vergogna nel rispondere ai due pellegrini:
È precipitato così tanto in basso perché si macchiò del furto degli arredi della Cappella di San Iacopo, nel duomo di Pistoia. A noi che un furto, benché aggravato, per Dante e i contemporanei, dal sacrilegio, sia più grave delle rapine e degli omicidi di cui lo stesso Vanni Fucci mena vanto ("vita bestial mi piacque e non umana", la "matta bestialitade" del canto XI), è incomprensibile, va contro la nostra sensibilità. Ma è questo il punto: le colpe nella visione dantesca ottengono pene maggiori secondo un criterio oggettivo, ovverosia secondo quella che è la natura umana. I fraudolenti usano la ragione – che è ciò che contraddistingue l’uomo, ciò che lo separa dagli altri viventi e lo innalza (o che, almeno, dovrebbe farlo) al di sopra di essi – in maniera perversa, nuocendo ai propri simili.
Proviamo a confrontare la ratio che ripartisce le pene nell’Inferno dantesco con quella che sta alla base dei nostri codici. So benissimo che non ci può essere un’esatta sovrapposizione: l’ordinamento e i castighi dell’Inferno soggiacciono a criteri più ampi, etici e spirituali (i peccatori dell'Inferno sono stati dannati non tanto per le loro azioni nefande, quanto per la cecità che li ha illusoriamente separati da ciò da cui hanno origine, in cui sono e da cui dipendono, ciò che il fondo della loro anima - per la loro separazione da Dio), viene insomma presa in considerazione la totalità della persona, mentre i codici penali determinano soltanto colpe e pene per azioni esteriori che siano riconosciute lesive per un altro soggetto o per la società, ma non punisce ovviamente gli incontinenti né certuni che Dante rinchiude nelle Malebolge. Penso, per esempio, a Venedico dei Caccianemici di Bologna, che Dante incontra tra i ruffiani (Inferno, canto XVIII) per aver spinto la sorella a soddisfare le voglie del marchese Obizzo II d’Este. Il comportamento potrebbe anche oggi essere considerato riprovevole, ma se la donna fosse stata indotta con la persuasione e l’inganno a concedersi all’Este e non costretta con la violenza, non si configurerebbe alcun reato penale.
Fatta questa premessa, veniamo al punto: mentre in Dante, come abbiamo visto, le colpe vengono ripartite secondo un criterio oggettivo, ossia secondo la definizione di natura umana che aveva fatto sua, presso i moderni sia la definizione del reato sia la gravità della pena dipendono da criteri soggettivi, legati alla sensibilità che varia col passare del tempo.
Mi vengono in mente un paio d'esempi. Il primo è quello di “atti osceni in luogo pubblico”, reato che ancora oggi figura nel codice penale, ma la cui imputazione è mutata di molto negli ultimi decenni. La stessa definizione del reato (art. 529), contiene l’espressione “comune sentire”. Ma questo potrebbe essere considerato un reato “vecchio”, “anacronistico”, vestigia di un’epoca “moralistica” e “ipocrita” (il che, tra l'altro, confermerebbe quanto vengo argomentando). Prendiamo allora il caso del delitto d’onore, presente nel codice penale italiano fino al 1981, anno in cui fu abrogato a seguito dei cambiamenti sociali e giuridici del decennio precedente (riforma del diritto di famiglia, introduzione del divorzio e legalizzazione dell’aborto). Fino ad allora l’art. 587 del codice recitava: “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell'atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d'ira determinato dall'offesa recata all'onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.” Oggi tale reato non esiste più. Era cambiato il “comune sentire”, e i legislatori provvidero ad adeguare la legge alla nuova sensibilità contemporanea.
In conclusione, il mondo moderno è strutturalmente sottoposto al mutamento continuo, al cambiamento incessante proprio del mondo sensibile, è sottoposto al divenire. Mentre Dante si appella a strutture sovrasensibili, a ciò che non muta, che non è soggetto a generazione e corruzione. In una parola, all’elemento eterno del cosmo. L’universo di Dante (e quello di tutte le culture che non hanno misconosciuto e negato l’esistenza di ciò che non può essere afferrato coi sensi, gli unici organi conoscitivi ammessi dagli uomini moderni) l’universo di Dante si poggia su fondamenti inalterabili, sulla natura naturans, mentre gli uomini moderni sono in balia della natura naturata, di quei fenomeni che non hanno in sé la loro ragion d’essere e il cui appigliarvisi porta solo alla rovina. È perfino iscritto nelle loro costituzioni, nelle leggi a fondamento delle loro giurisprudenze: ciò che sta alla base, ciò che è titolare di ogni diritto, ciò che è riconosciuto come il discrimine ultimo delle scelte è l’individuo empirico, l’io transeunte, ossia il fenomeno più accidentale e meno normativo e universalizzante che si possa incontrare (nonostante ciascun individuo porti con sé l’universale, e che taluni abbiano anche la possibilità di “ricongiungervisi”). Perciò quello che oggi appare normale, finanche giusto, ieri appariva bizzarro e perfino criminale. E quello che oggi è un delitto in futuro potrebbe essere accettato, quando non esaltato. Perciò gli individui vivono nella tragicomica situazione di un’autoesaltazione che s’accompagna all’incertezza, all’inquietudine, allo smarrimento e, da ultimo, alla perdizione, al naufragio di chi in vita sua non ha fatto altro che essere sballottato dai flutti come un relitto credendosi uno scoglio immune alle vicissitudini del mare.
[Dante Alighieri, La Divina Commedia, Commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Mondadori, Milano 2007; la Veduta dell’Inferno di Michelangelo Caetani è tratta dall’articolo Inferno dell'edizione italiana di Wikipedia; l'illustrazione di Doré della Divina Commedia è tratta dall'articolo Vanni Fucci dell'edizione italiana di Wikipedia; l'Illustrazione degli adulatori di Giovanni Stradano è tratto dall'articolo Inferno - Canto diciottesimo della versione italiana di Wikipedia]
Michelangelo Caetani, Veduta dell’Inferno. |
Ma non è mia intenzione neppure abbozzare una storia dell’immagine di Dante e della Divina Commedia nella cultura moderna, un compito arduo per le mie forze e che trovo, alla fine dei conti, poco stimolante. Quello che a me interessa dell’opera di Dante è la sua sempiterna vitalità. Ed è per questo che ho intenzione di dire qualcosa su una delle caratteristiche della Commedia che possono più sconcertare il lettore moderno: la ripartizione delle pene dell’Inferno.
Dante affronta il tema nel canto XI, dopo uno degli incontri più famosi e celebrati del Poema sacro, quello col ghibellino Farinata degli Uberti. Virgilio e Dante si sono appena lasciati alla spalle la piana degli eretici, i primi peccatori che hanno incontrato dopo aver attraversato le mura della città di Dite, mura che chiudono la parte più dolorosa dell’Inferno. Siamo sulla soglia del VII cerchio, dove i violenti scontano le loro pene. Prima di poter scendere a incontrare “più crudele stipa” (v. 3), Virgilio interrompe il cammino affinché il senso dell’olfatto di Dante si abitui al puzzo tremendo che sale dai cerchi inferiori (il “tristo fiato”, v. 12). Forzati a fermare momentaneamente la discesa, Dante, in una delle sue tante manifestazioni d’ardore conoscitivo, chiede a Virgilio di non lasciar passare invano il tempo che dovranno trascorre prima di accedere al VII cerchio. La guida del poeta fiorentino ne approfitta allora per descrivere e rendere ragione dell’ordinamento dell’Inferno.
Com’è noto, i dannati dell’Inferno dantesco si suddividono in tre grandi categorie: gli incontinenti, che occupano i cerchi dal secondo al quarto; i violenti, confinati nel settimo cerchio; e i fraudolenti, che troviamo negli ultimi due cerchi dell’infermo, l’ottavo e il nono. Restano fuori da queste categorie gli eretici, sepolti in tombe infuocate lungo le mura della città di Dite; gli spiriti di coloro che, pur non avendo infranto la legge divina, non conobbero la salvifica Parola di Cristo, racchiusi nel primo cerchio, il Limbo, dove hanno come pena la sempiterna lontananza da Dio; e gli ignavi, confinati nell’antinferno, costretti a rincorrere perennemente uno stendardo bianco mentre sono tormentati da innumerevoli insetti.
Quello che subito salta agli occhi di un uomo contemporaneo è la collocazione dei violenti: non si trovano nel fondo dell’Inferno, non sono, cioè, la colpa più grave di cui un uomo possa macchiarsi. Maggior lontananza da Dio e, quindi, maggior castigo, è riservato ai fraudolenti. Vediamo perché:
D'ogne malizia, ch'odio in cielo acquista,
ingiuria è 'l fine, ed ogne fin cotale
o con forza o con frode altrui contrista.
Ma perché frode è de l’uom proprio male,
più spiace a Dio; e però stan di sotto
li frodolenti, e più dolor li assale.
(Inferno, XI, vv. 22-27)
La prima terzina spiega cosa accomuna i dannati dal settimo cerchio fino a Lucifero: l’ingiuria (termine tecnico che indica la violazione di un diritto altrui) è lo scopo di ogni atto “malizioso”, ossia di ogni atto commesso non per la sola spinta della passione. Tuttavia, poiché la frode (nel senso d’inganno, artificio malvagio) è possibile solo all’uomo in virtù della sua natura razionale, viene punita più in basso e più duramente della violenza.
Gustave Doré, Dante tra i ladri, 1861. |
Ma forse l’esempio migliore è quello del pistoiese Vanni Fucci. Dante lo incontra tra i ladri, dove s’imbatte in lui mentre una delle serpi che popolano la bolgia, dopo esserglisi avvinghiata addosso, lo fa incenerire. L’anima di Fucci si ricompone “di butto” (v. 105) nella figura originaria come la mitica araba fenice giunta al cinquecentesimo anno di vita. Ripresosi, il pistoiese risponde alla domanda di Virgilio, che gli ha chiesto chi fosse:
Lo duca il domandò poi chi ello era;
per ch’ei rispuose: "Io piovvi di Toscana,
poco tempo è, in questa gola fiera.
Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana".
E ïo al duca: "Dilli che non mucci,
e domanda che colpa qua giù ’l pinse;
ch’io ’l vidi omo di sangue e di crucci".
(Inferno, XXIV, vv. 121-129)
Dante conosce questo dannato, ma non s’aspettava di trovarlo punito tra i ladri, ma più sopra, tra i violenti contro il prossimo: “omo di sangue e di crucci”, appunto. Vanni Fucci, che aveva protervamente vantato l’amore per la “vita bestiale” (nella quale rientra appunto anche la violenza), non si sottrae alla domanda, ma prova vergogna nel rispondere ai due pellegrini:
E ’l peccator, che ’ntese, non s’infinse,
ma drizzò verso me l’animo e ’l volto,
e di trista vergogna si dipinse;
poi disse: "Più mi duol che tu m’hai colto
ne la miseria dove tu mi vedi,
che quando fui de l’altra vita tolto.
Io non posso negar quel che tu chiedi;
in giù son messo tanto perch’io fui
ladro a la sagrestia d’i belli arredi,
e falsamente già fu apposto altrui.
(Inferno, XXIV, vv. 130-139)
È precipitato così tanto in basso perché si macchiò del furto degli arredi della Cappella di San Iacopo, nel duomo di Pistoia. A noi che un furto, benché aggravato, per Dante e i contemporanei, dal sacrilegio, sia più grave delle rapine e degli omicidi di cui lo stesso Vanni Fucci mena vanto ("vita bestial mi piacque e non umana", la "matta bestialitade" del canto XI), è incomprensibile, va contro la nostra sensibilità. Ma è questo il punto: le colpe nella visione dantesca ottengono pene maggiori secondo un criterio oggettivo, ovverosia secondo quella che è la natura umana. I fraudolenti usano la ragione – che è ciò che contraddistingue l’uomo, ciò che lo separa dagli altri viventi e lo innalza (o che, almeno, dovrebbe farlo) al di sopra di essi – in maniera perversa, nuocendo ai propri simili.
Proviamo a confrontare la ratio che ripartisce le pene nell’Inferno dantesco con quella che sta alla base dei nostri codici. So benissimo che non ci può essere un’esatta sovrapposizione: l’ordinamento e i castighi dell’Inferno soggiacciono a criteri più ampi, etici e spirituali (i peccatori dell'Inferno sono stati dannati non tanto per le loro azioni nefande, quanto per la cecità che li ha illusoriamente separati da ciò da cui hanno origine, in cui sono e da cui dipendono, ciò che il fondo della loro anima - per la loro separazione da Dio), viene insomma presa in considerazione la totalità della persona, mentre i codici penali determinano soltanto colpe e pene per azioni esteriori che siano riconosciute lesive per un altro soggetto o per la società, ma non punisce ovviamente gli incontinenti né certuni che Dante rinchiude nelle Malebolge. Penso, per esempio, a Venedico dei Caccianemici di Bologna, che Dante incontra tra i ruffiani (Inferno, canto XVIII) per aver spinto la sorella a soddisfare le voglie del marchese Obizzo II d’Este. Il comportamento potrebbe anche oggi essere considerato riprovevole, ma se la donna fosse stata indotta con la persuasione e l’inganno a concedersi all’Este e non costretta con la violenza, non si configurerebbe alcun reato penale.
Giovanni Stradano, Illustrazione degli adulatori nell'Inferno di Dante. |
Fatta questa premessa, veniamo al punto: mentre in Dante, come abbiamo visto, le colpe vengono ripartite secondo un criterio oggettivo, ossia secondo la definizione di natura umana che aveva fatto sua, presso i moderni sia la definizione del reato sia la gravità della pena dipendono da criteri soggettivi, legati alla sensibilità che varia col passare del tempo.
Mi vengono in mente un paio d'esempi. Il primo è quello di “atti osceni in luogo pubblico”, reato che ancora oggi figura nel codice penale, ma la cui imputazione è mutata di molto negli ultimi decenni. La stessa definizione del reato (art. 529), contiene l’espressione “comune sentire”. Ma questo potrebbe essere considerato un reato “vecchio”, “anacronistico”, vestigia di un’epoca “moralistica” e “ipocrita” (il che, tra l'altro, confermerebbe quanto vengo argomentando). Prendiamo allora il caso del delitto d’onore, presente nel codice penale italiano fino al 1981, anno in cui fu abrogato a seguito dei cambiamenti sociali e giuridici del decennio precedente (riforma del diritto di famiglia, introduzione del divorzio e legalizzazione dell’aborto). Fino ad allora l’art. 587 del codice recitava: “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell'atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d'ira determinato dall'offesa recata all'onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.” Oggi tale reato non esiste più. Era cambiato il “comune sentire”, e i legislatori provvidero ad adeguare la legge alla nuova sensibilità contemporanea.
In conclusione, il mondo moderno è strutturalmente sottoposto al mutamento continuo, al cambiamento incessante proprio del mondo sensibile, è sottoposto al divenire. Mentre Dante si appella a strutture sovrasensibili, a ciò che non muta, che non è soggetto a generazione e corruzione. In una parola, all’elemento eterno del cosmo. L’universo di Dante (e quello di tutte le culture che non hanno misconosciuto e negato l’esistenza di ciò che non può essere afferrato coi sensi, gli unici organi conoscitivi ammessi dagli uomini moderni) l’universo di Dante si poggia su fondamenti inalterabili, sulla natura naturans, mentre gli uomini moderni sono in balia della natura naturata, di quei fenomeni che non hanno in sé la loro ragion d’essere e il cui appigliarvisi porta solo alla rovina. È perfino iscritto nelle loro costituzioni, nelle leggi a fondamento delle loro giurisprudenze: ciò che sta alla base, ciò che è titolare di ogni diritto, ciò che è riconosciuto come il discrimine ultimo delle scelte è l’individuo empirico, l’io transeunte, ossia il fenomeno più accidentale e meno normativo e universalizzante che si possa incontrare (nonostante ciascun individuo porti con sé l’universale, e che taluni abbiano anche la possibilità di “ricongiungervisi”). Perciò quello che oggi appare normale, finanche giusto, ieri appariva bizzarro e perfino criminale. E quello che oggi è un delitto in futuro potrebbe essere accettato, quando non esaltato. Perciò gli individui vivono nella tragicomica situazione di un’autoesaltazione che s’accompagna all’incertezza, all’inquietudine, allo smarrimento e, da ultimo, alla perdizione, al naufragio di chi in vita sua non ha fatto altro che essere sballottato dai flutti come un relitto credendosi uno scoglio immune alle vicissitudini del mare.
[Dante Alighieri, La Divina Commedia, Commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Mondadori, Milano 2007; la Veduta dell’Inferno di Michelangelo Caetani è tratta dall’articolo Inferno dell'edizione italiana di Wikipedia; l'illustrazione di Doré della Divina Commedia è tratta dall'articolo Vanni Fucci dell'edizione italiana di Wikipedia; l'Illustrazione degli adulatori di Giovanni Stradano è tratto dall'articolo Inferno - Canto diciottesimo della versione italiana di Wikipedia]
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