L'uscita dal sé, II: senso e forme
Giacomo Leopardi morì nel 1837. La sua breve esistenza trascorse nel pieno dell'epoca romantica, quando cominciavano a imperversare il socialismo utopistico e il positivismo, due visioni del mondo che avevano in comune la convinzione che l'umanità andasse inesorabilmente - per intima legge della propria natura - incontro a un destino più luminoso di quello che le era toccato in sorte fino a quel momento. Leopardi s'oppose per tutta la vita a quella visione del mondo. S'oppose schernendola, cercando di mostrare in tutte le sue opere come la condizione umana fosse essenzialmente infelice, come il destino dell'uomo fosse sempre il medesimo: angoscia, dolore e morte.
A. Ferrazzi, Ritratto di Giacomo Leopardi, 1820 circa, Recanati, Casa Leopardi. |
Leopardi non si limitò a descrivere le miserie dell'esistenza umana, ma cercò anche d'individuarne l'origine. Origine che ritenne d'aver trovato nella natura, in "quella/che veramente è rea, che de' mortali/madre è di parto e di voler matrigna" (La ginestra, vv. 123-125). Leopardi personifica più volte la natura nelle sue opere, sia nella forma di muta interlocutrice sia proprio di divinità antropomorfa. Celeberrimo è il caso del Dialogo della Natura e di un Islandese. In questa operetta, Leopardi mette in scena l'incontro tra un uomo, un Islandese, e la Natura, personificata nella "forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi." Alla Natura l'Islandese racconta la sua esperienza di vita: persuaso nell'intimo, fin dalla giovinezza, della condizione miserrima della specie umana, cominciò a viaggiare per il mondo per capire se quanto aveva veduto non si ripresentasse anche altrove. Ma viaggiò invano: ovunque andasse si trovava di fronte la medesima realtà, seppur declinata in maniere differenti: la vita è male (l'interessante tema del viaggio per il mondo alla ricerca di una terra felice nella quale la condizione umana sia meno miserabile, torna, nelle Operette morali, nella Scommessa di Prometeo, favola filosofica in cui Momo, il dio greco dell'ironia e dello scherno, accompagna Prometeo da un capo all'altro del pianeta per mostrargli il penoso stato in cui versa la specie umana: dovunque essi si fermino, sia nella "arretrata" India, dove una vedova si getta viva nella pira dove arde il corpo del marito, sia nella "civilissima" Londra, dove un padre si è appena tolto la vita dopo aver assassinato i propri figli "per tedio della vita", il verdetto non cambia: miseria; Leopardi non fu il primo a usare il viaggio per il mondo come mezzo per palesare la condizione umana: risalgono al Settecento, secolo al quale Leopardi è intellettualmente legato, due celeberrimi viaggi filosofici intorno al mondo: I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift e il Candido di Voltaire. Entrambi, con stile diversissimo, emettono un verdetto amaro sulla specie umana: virtù e felicità non sono appannaggio degli uomini. E se Candido le trova nel favoloso Eldorado, il paese dove tutto va bene, Gulliver, invece, dovrà raggiungere la terra dei cavalli sapienti, gli Houyhnhnm, per incontrarle: un luogo fiabesco e una regione abitata da equini saggi). Al lamento dell'Islandese la Natura risponde perentoria:
Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt'altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.
L'Islandese ribatte paragonando la Natura a un padrone di casa che tratti malamente un ospite che lui stesso aveva invitato a soggiornare nella propria dimora. Perché farlo? Perché non preoccuparsi almeno che l'ospite, se non felice, quantomeno non soffra? La Natura gli rammenta allora che l'universo è "un perpetuo circolo di produzione e distruzione" intimamente collegate tra loro, tanto che, se venisse meno una delle due, ne andrebbe della permanenza stessa del tutto. La replica dell'Islandese è un umanissimo: cui prodest? A chi giova il sempiterno sorgere e perire di tutte le cose? Ma l'Islandese non fa in tempo a udire la risposta della Natura. Proprio nel momento in cui aveva terminato di pronunciare la domanda, muore. Sulla fine dell'Islandese l'operetta dà due versioni, entrambe atte a dimostrare quanto sia "il gener nostro in cura all'amante natura": o fu sbranato da "due leoni, così rifiniti e maceri dall'inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell'Islandese"; oppure sepolto da un'improvvisa tempesta di sabbia che ne avrebbe preservato il corpo talmente bene da permetterne una futura esposizione in un museo d'una città europea. Da notare che la seconda versione cela un ironico disprezzo verso l'epoca (disprezzo che altrove Leopardi dichiara apertamente): il cadavere dell'Islandese, invece di spingere i contemporanei a meditare sulla propria condizione e il proprio destino, è esposto come una curiosità da ammirare alla domenica, durante una gita al museo.
La domanda umanissima dell'Islandese resta senza risposta, perché non c'è alcun bisogno di darne una. Il significato della chiusa dell'operetta è palese: la vita dell'universo non ha alcun senso. Il suo unico senso (se tale si può chiamare) è il "perpetuo circolo" della materia che cangia incessantemente di forma, dando origine a un'infinita moltitudine di esseri, senso scopo o fine alcuno. Questa è la natura delle cose. Questa l'aspra verità che il secolo decimonono ignora o finge d'ignorare. "Non io/con tal vergogna scenderò sotterra", scrive nella Ginestra (vv. 63-64), dove orgoglioso e sdegnoso dichiara (vv. 111-117):
Nobil natura è quella
che a sollevar s'ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale.
Di fronte al deserto dell'esistenza, insensato e momentaneo agitarsi di sciocchi insetti che delirano ritenendosi nati per godere e per chissà quale luminoso destino, Leopardi non distoglie lo sguardo, ma ve lo mantiene fisso per amore del vero e per disprezzo della menzogna stoltamente lusinghiera: "la vita umana, per modo di dire, è composta e intessuta, parte di dolore, parte di noia; dall'una delle quali passioni non ha riposo se non cadendo nell'altra. E questo non è tuo destino particolare, ma comune di tutti gli uomini" (così il genio nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare). Momenti di dolore (con questo termine Leopardi non indica solo i momenti di acuta sofferenza, ma anche tutti quegli stati d'animo che vanno dalla mera irritazione, alla contrarietà, alla rabbia e alla furia, tutti stati che guastano la quotidianità degli uomini) cui s'inframezzano momenti di noia. Il tutto immerso nella speranza (notevole, al riguardo, il fulminante Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere) e nel desiderio (o nello struggimento) sempre frustrato di godere. Questa è la vita dell'uomo. Questo il penare continuo che lo accompagna fino a quello "abisso orrido, immenso,/ov'ei precipitando, il tutto obblia" (Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, vv. 35-36).
Joseph Mallord William Turner, Il naufragio, 1805, Londra, Tate Gallery. |
In ogni tempo e in ogni luogo la condizione umana è stata miserabile. Gli uomini sono sempre stati preoccupati e angosciati, si sono tormentati e torturati reciprocamente, hanno reso difficile a sé e agli altri quel po' di vita concesso loro e non sono stati capaci di apprezzare né godere la bellezza del mondo e la dolcezza dell'esistenza, loro offerta da quella bellezza.
Sono parole di Johann Wolfgang Goethe, tratte da una conversazione con lo storico Heinrich Luden. Il nocciolo della questione è il valore della storiografia, cosa ci si possa, cioè, aspettare dallo studio della storia riguardo all'approfondimento della conoscenza della condizione umana. Goethe, con una forma mentis davvero classica, liquida la conoscenza storica come irrilevante: la condizione umana è sempre stata la medesima. Non c'è bisogno di dedicare la vita a rievocare minuziosamente il passato: non aggiungeremo nulla più alla consapevolezza che angoscia, dolore, sofferenza, non dovute solamente a cause esterne (malattie, invecchiamento, catastrofi naturali ecc.), ma anche agli sconsiderati comportamenti che gli uomini tengono gli uni verso gli altri, contraddistinguono la vita dei più. Un'esistenza misera e dolente, che trascorre mentre di fronte a loro si squaderna la bellezza del mondo (e del mondo fanno anche parte gli uomini, dei quali ci si può anche pascere la vista per la loro strabiliante multiformità, invece che starli sempre a giudicare). Bellezza che potrebbe addolcir loro l'esistenza se solo fossero capaci di scorgerla, se solo non fossero accecati da quella stoltezza che li porta a tormentarsi l'un l'altro. Gli uomini, con la loro insaziabile cupidigia, con la loro smania di prevalere sugli altri, con la loro cecità, la loro stolidezza. Ecco dunque che l'errore sta nel permanere sempre in sé, nel non vedere altro che le proprie brame, nel non provare mai a guardare fuori senza tirare in ballo sé stessi, senza rapportare ogni cosa al proprio vantaggio e svantaggio, alla propria gioia e sofferenza. Senza essere, insomma, sempre ego-centrati.
Un atteggiamento teoretico (nel senso di contemplativo e conoscitivo a un tempo), un tentativo di non rapportare sempre tutto a sé stessi o comunque all'uomo: ecco una via alternativa a quella sorta di antropocentrismo emotivo che caratterizza il discorso leopardiano (antropocentrismo emotivo e "utilitaristico" che denota anche la civiltà moderna tutta, così orgogliosa della propria "oggettività" e razionalità). Cosicché la stessa Natura (intendo, in questo caso, la totalità delle cose sensibili, prescindendo da ogni discorso sulla sua eventuale dipendenza ontologica da un alcunché di trascendente o da un principio a essa immanente), invece di essere colpevolizzata come l'origine di tutti i nostri mali, può essere ammirata per l'infinita ricchezza delle forme che sgorgano incessantemente dal suo seno.
Un atteggiamento teoretico (nel senso di contemplativo e conoscitivo a un tempo), un tentativo di non rapportare sempre tutto a sé stessi o comunque all'uomo: ecco una via alternativa a quella sorta di antropocentrismo emotivo che caratterizza il discorso leopardiano (antropocentrismo emotivo e "utilitaristico" che denota anche la civiltà moderna tutta, così orgogliosa della propria "oggettività" e razionalità). Cosicché la stessa Natura (intendo, in questo caso, la totalità delle cose sensibili, prescindendo da ogni discorso sulla sua eventuale dipendenza ontologica da un alcunché di trascendente o da un principio a essa immanente), invece di essere colpevolizzata come l'origine di tutti i nostri mali, può essere ammirata per l'infinita ricchezza delle forme che sgorgano incessantemente dal suo seno.
Passeggiavamo su e giù per la stanza, quando, avvicinatasi alle finestre laterali chiuse da scuri, ella aprì un’imposta, e io vidi allora ciò che si vede una sola volta nella vita… Eravamo a una finestra dell’ultimo piano, col Vesuvio proprio di fronte; il sole era tramontato da un pezzo, e il fiume di lava rosseggiava vivido, mentre il fumo che l’accompagnava andava prendendo una tinta dorata; la montagna mugghiava cupa, sovrastata da una gigantesca nube immobile, le cui masse a ogni nuovo getto si squarciavano balenando e illuminandosi come corpi solidi. Di lassù fin quasi al mare correva una lingua di braci e di vapori incandescenti; e mare e terra, rocce e alberi spiccavano nella luminosità del crepuscolo, chiari, placidi, in una magica fissità. All'abbracciare tutto questo con un solo sguardo, mentre dietro il monte, quasi a suggellare la visione incantevole, sorgeva la luna piena, c’era di che trasecolare.E' un passo tratto dal Viaggio in Italia di Goethe. La mente corre subito alla Ginestra di Leopardi, e alle sue cupe (ma sublimi) meditazioni sopra "i flutti indurati" delle pendici dello stesso Vesuvio. Goethe, qui come in tanti altri luoghi della sua sterminata opera, sbalordisce di fronte alla natura. Leopardi si rattrista, invece, perché rapporta sempre tutto al destino suo e dell'uomo tutto.
Quale in notte solinga,
Sovra campagne inargentate ed acque,
Sovra campagne inargentate ed acque,
Là ’ve zefiro aleggia,
E mille vaghi aspetti
E ingannevoli obbietti
Fingon l’ombre lontane
Infra l’onde tranquille
E rami e siepi e collinette e ville;
Giunta al confin del cielo,
Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno
Nell’infinito seno
Scende la luna; e si scolora il mondo;
Spariscon l’ombre, ed una
Oscurità la valle e il monte imbruna;
Orba la notte resta,
E cantando, con mesta melodia,
L’estremo albor della fuggente luce,
Che dianzi gli fu duce,
Saluta il carrettier dalla sua via.
E mille vaghi aspetti
E ingannevoli obbietti
Fingon l’ombre lontane
Infra l’onde tranquille
E rami e siepi e collinette e ville;
Giunta al confin del cielo,
Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno
Nell’infinito seno
Scende la luna; e si scolora il mondo;
Spariscon l’ombre, ed una
Oscurità la valle e il monte imbruna;
Orba la notte resta,
E cantando, con mesta melodia,
L’estremo albor della fuggente luce,
Che dianzi gli fu duce,
Saluta il carrettier dalla sua via.
Sono versi tratti dal Tramonto della luna, uno degli ultimi canti leopardiani. Il loro splendore, la loro forza evocativa è tale da ingenerare struggimento e desiderio di trovarsi ad ammirare lo spettacolo che descrivono (eventualità ormai improbabile, se non impossibile, per noi). Anche la stessa "mesta melodia" del carrettiere riesce gradita all'immaginazione (e mi ricorda i gondolieri veneziani dell'epoca di Goethe che, al crepuscolo, cantavano tristi strofe dell'Ariosto e del Tasso rispondendosi di canale in canale). Eppure sono versi che Leopardi cesella per una similitudine: il tramonto della luna che toglie anche quell'unico, fioco lume che rischiarava l'oscura notte è paragonato alla fine della giovinezza per l'uomo, unico momento dove l'illusione della felicità e il vigore e l'ingenuità degli anni temperino l'asprezza della vita.
Ho confrontato Leopardi con Goethe consapevole delle enormi differenze tra i due poeti (l'uno uomo del Settecento, l'altro romantico; l'uno poeta riconosciuto sommo e osannato in vita, dall'esistenza ricca e complessa, l'altro solitario, ignorato quando non compatito dai contemporanei, tutti presi dalle "magnifiche sorti e progressive" e dalle dinamiche politiche, incapaci di valutarne spassionatamente il messaggio; l'uno incline a una metafisica panteista - o che comunque riconosceva l'esistenza del divino, l'altro un materialista ateo e disperato). Quello che m'interessava mostrare erano due diversi atteggiamenti nei confronti del mondo, due modi diversi di guardare alla natura e a ciò che la sua vita comporta. Leopardi ha lo sguardo fisso sul risultato del processo: la scomparsa degli enti (dopo un'esistenza dolorosa). Goethe sulla loro sbalordente molteplicità. Leopardi è tutto concentrato sul senso (mancante). Goethe invita a porre lo sguardo sulle forme. Ma la domanda di senso, umanissima e difficilmente aggirabile, quando oggi è posta (ma, ahimè, lo si fa sempre di meno) nei termini leopardiani ottiene una risposta non dissimile da quella datale dal recanatese. La via delle forme, invece, ne potrebbe aprire altre, ormai rarissimamente battute.
[Johann Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia, trad. it. Mondadori, Milano 2004; la citazione di Goethe dal discorso con lo storico Luden è tratta da Karl Löwith, Significato e fine della storia, trad. it. Il Saggiatore, Milano 1998; il ritratto di Leopardi è tratto dall'articolo Giacomo Leopardi della versione italiana di Wikipedia; tutte le altre immagini sono tratte dalla Web Gallery of Art]
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