Malaparte e la fine della civiltà europea

Curzio Malaparte (1898 - 1957) in divisa da alpino.
Mi sono imbattuto in Curzio Malaparte pochi mesi fa. Al liceo non ne avevo neppure sentito parlare. I libri di testo su cui avevo studiato lo liquidano con poche parole, e poco lusinghiere – ne offrono, anzi, una caricatura, trattandolo come un brillante scribacchino privo di coerenza poetica e, udite, udite, morale. La cultura marxista nostrana, tiranna della formazione intellettuale italiana fino a pochi decenni fa, non poteva certo tollerare un ex-fascista che osava mettere in dubbio la sacralità della lotta per la liberazione dell’Italia. Non poteva tollerare che Malaparte descrivesse, negli anni Quaranta, l’epoca delle lotte contro i nazi-fascisti per quella che fu: una guerra civile (che poi ci possa rallegrare per la vittoria degli Alleati e del CLN, non ha nulla a che fare con la descrizione della natura degli eventi che si compirono in Italia a seguito dell’armistizio con gli Alleati). Non poteva tollerare, soprattutto, che si scrivesse un libro non mirante al “progresso morale e civile” del paese. Partendo da queste premesse (poggiate su una filosofia della storia grossolana e su un’idea ristretta e deprimente del ruolo dell’arte e della poesia), sono stati sminuiti non solo autori contemporanei come Malaparte, ma anche alcuni classici, colpevoli d’aver rinunciato alla sacra libertà dell’intellettuale, a quel compito che parrebbe essenziale alla sua natura: smascherare i pomposi inganni del potere e lottare per l’avanzamento della civiltà e della libertà.
Mi si perdoni il malanimo, ma la sicumera che sta alla base di quell’atteggiamento è per me intollerabile. Non riesco a sopportare che vengano date per scontate cose che non lo sono. Non mi riesce proprio di digerire la leggerezza con cui vengono accettate le premesse metafisiche alla base di tale visione. Premesse che non vengono, in realtà, accettate, ma neppure scorte. E, anzi, se parli di metafisica vieni guardato con uno sguardo di pietosa sufficienza per le sciocchezze antiquate di cui farnetichi, quando dovresti occupare il tempo in maniera più concreta e fruttuosa. Ma basta così: Non ragioniam di lor, ma guarda e passa.

Il primo incontro con Malaparte fu Maledetti toscani. Da toscano io stesso, m’aveva sempre attratto il titolo, un chiaro elogio dei miei conterranei, appena velato dall’imprecazione compiaciuta per la loro devastante schiettezza. Non ne rimasi gran ché impressionato. L’andamento ondivago della narrazione, un misto di ricordi di gioventù e di considerazioni talvolta volutamente eccessive sul carattere dei toscani, mi lasciò l’impressione d’un testo non solo mancante di coerenza, ma anche di consistenza. M’erano piaciuti, invece, sia alcuni passaggi autobiografici, sia la prosa, che in certe descrizioni dava il meglio di sé. La lettura m’aveva comunque lasciato un senso d’artificiosità e virtuosismo che non promettevano bene. Per un po’ rinunciai al progetto di leggere altre sue opere. Benché la lettura di Maledetti toscani fosse stata piacevole e fosse filata via veloce e senza intoppi, temevo di trovare in altri suoi libri la stessa inconsistenza. Mi sbagliavo. Kaputt e La pelle si sarebbero rivelati due tra i libri più stupefacenti che abbia mai letto.
Leggendo Kaputt si capisce perché l’Europa s’è americanizzata. La Seconda guerra mondiale devastò non soltanto le città (le splendide, antiche città europee), ma cancellò con essa un’intera, multiforme e gloriosa civiltà. Dopo la guerra, complice anche il terrore della dittatura sovietica, grigia e spersonalizzante, l’Europa era vuota nello spirito. L’America, con l’energia grossolana e la vitalità naif che la contraddistingueva, parve agli europei l’unica via per tornare a vivere. Dal punto di vista materiale, la cosa è ovvia. Una gigantesca armata premeva dal lato orientale della cortina di ferro. L’unico baluardo militare europeo (l’esercito nazista) era stato spazzato via. L’Europa era un cumulo di macerie materiali e spirituali. Per tornare a vivere, e per farlo non irreggimentata nella società comunista, non le restava che la scintillante rozzezza degli Stati Uniti. Gli americani erano giunti in Europa straboccanti di denaro e oggetti. La loro nazione prosperava, spavalda e sicura, mentre il Vecchio continente era infiammato da una guerra devastante e brutale mai vista prima. Una delle sue nazioni più rappresentative s’era sprofondata in un abisso di barbarie. In quel deserto l’American way of life appariva non soltanto l’unica via, ma anche la sola via giusta. L’Europa non aveva più nulla da offrire.
Kaputt trasuda malinconia e fatalismo. L’autore non lancia strali contro i tedeschi, non s’adira sdegnoso contro di loro: li guarda come fossero dei poveracci, addirittura con compassione, come la baronessa polacca che li chiama “ces pauvres gens”. Si volge indietro a mirare, malinconico e rassegnato, l’antico splendore della civiltà europea. Quando torna a posare lo sguardo sui nazisti è preso da tristezza per l’abbrutimento in cui vede precipitata un’intera nazione (e che nazione!) e, con essa, un intero continente.
Ad altri toccò raccontare le angosce e le immani sofferenze e brutalità patite dai singoli. Malaparte narra la fine disastrosa d’una civiltà luminosa, giunta infine all’auto-annichilimento dopo una lunga decadenza. Si potrebbe perfino pensare che la Seconda guerra mondiale sia la vera fine dell’Ancien régime e, con esso, della civiltà europea tout court. Eccessivo, certo. Tuttavia non si può negare, ad esempio, che la formazione delle classi più elevate sia ormai centrata sulla cultura scientifica, già rampante all’epoca di Auguste Comte e dilagante a quella di Max Weber, ma che allora era ancora bilanciata dalla cultura umanistica e letteraria. Come il 1789 era già in corso prima del 14 luglio, così il culto dell’efficienza e della specializzazione cominciava già a diffondersi all’epoca dei romantici. Certo, ancora viviamo nell’epoca post-rivoluzione francese (per quanto riguarda le dinamiche politiche e, in misura minore, sociali). Ma il punto è che a oggi, 1° luglio 2011, la cultura che dominava prima del 1789 è percepita come un’anticaglia, mentre ancora pulsava viva nella Parigi fin de siècle. Solo la Seconda guerra mondiale, con la schiacciante vittoria della nazione senza passato e senza Ancien régime, l’avrebbe definitivamente spazzata via.
Quella che viviamo adesso è la vera epoca del positivismo. I libri di storia errano nell'identificarla con la seconda metà dell’Ottocento. Quando le scienze sono mai state ritenute l’unico vero sapere? Quando gli scienziati sono stati visti come i soli sapienti? Quando la vita materiale, concreta e positiva, è stata vista e soprattutto sentita come l’unica vita? Quando mai l’arte è stata ritenuta anzitutto uno dei tanti modi per generare denaro? Quando mai forme alternative di pensiero (filosofiche e religiose) sono state non solo malviste, ma addirittura sdegnate o comunque guardate con compassione? L’Europa è morta. E se non ne conosciamo la data di nascita, di certo ci è nota quella del decesso: 8 maggio 1945.

La pelle è, se possibile, più impressionate di Kaputt. Narrativamente più compatto e incalzante, il romanzo narra dell’occupazione alleata di Napoli e dell’abbrutimento in cui la città cadde in quel periodo. La vigorosa e grossolana energia degli americani vi risalta quanto la corruzione degli occupati – dei liberati. E’ un libro che non poteva essere perdonato al suo autore: dalla “vergine di Napoli”, ai bambini venduti ai soldati marocchini, ai processi sommari fiorentini sul sagrato di Santa Maria Novella, tutto lasciava presagire la collocazione all'indice dei libri incivili e retrogradi da parte della “cultura” ufficiale italiana.
Voglio riportare un passo del libro, non certo uno di quelli scabrosi o crudi, nel quale Malaparte fa una diagnosi lucida dello stato dello spirito europeo, diagnosi che a parer mio è ancora oggi attualissima, se non lo è ancor più d'allora.
Quella meravigliosa apparizione (in quell'interno napoletano dai goffi mobili borghesi, davanti a quella tavola) di quel vivo Apollo, di un così perfetto modello della classica bellezza virile, era, per quegli ufficiali francesi, la rivelazione di un proibito mistero. Tutti contemplavano Jeanlouis in silenzio. E io mi domandavo, con un turbamento di cui non sapevo dirmi la ragione, se si rendessero conto che quel mirabile “spettro” della civiltà classica italiana nel suo estremo trionfo, già corrotta e umiliata dai fermenti di una morbosa sensibilità femminile, già inaridita dalla mancanza di nobili sentimenti, di forti passioni, di alti ideali, era l’immagine del male segreto di cui soffriva gran parte della gioventù europea in tutti i paesi, vinti e vincitori: l’oscura tendenza a trasformare i valori di libertà, che parevano essere gli ideali di tutti i giovani d’Europa, in brama di soddisfacimenti sensuali, le esigenze morali in rifiuto di ogni responsabilità, i doveri sociali e politici in vane esercitazioni intellettualistiche, e i nuovi miti proletari nei miti ambigui di un narcisismo ambiguo deviato in autopunizione.
Il giovane descritto, Jeanlouis, è il figlio d’un’amica nobile di Malaparte. E’ un omosessuale rifugiatosi nella Napoli occupata dagli Alleati, forse l’unico posto d’Europa dove quelli come lui non fossero perseguitati. Nel romanzo l’omosessualità effeminata di Jeanlouis è rappresentata, e nel passo soprariportato apertamente dichiarata, come l’estrema forma della decadenza della civiltà europea, della quale non è rimasto altro che morbosa sensualità e capriccio (l’episodio della celebrazione del fallo, coll'ufficiale americano indignato che prende a calci gli “officianti”, è una metafora trasparente dello stato di cose nel continente). Al di là del giudizio malapartiano sull'omosessualità (o, meglio, sulla sua ostentazione e santificazione intellettualoide), quello che a me interessa è la sottolineatura della natura bassamente materiale, capricciosa e morbosa, dello spirito europeo. Oggi siamo arrivati alla consacrazione sociale e giuridica di quello stato di cose. Si moltiplicano iniziative perché ogni individualità possa “liberamente” esprimere ogni suo più sciocco e vano capriccio con la protezione della legge e la benedizione della società. Negli anni ho letto di tutto: dalla lotta delle femministe svedesi perché le donne potessero esercitare il diritto di fare il bagno a seno nudo nelle piscine pubbliche, a giornalisti chiamare “oasi di libertà” le spiagge pei nudisti, passando per cose più serie, come le strenue battaglie per il divorzio breve, la droga libera ecc. Non entro nel merito delle singole questioni (da ponderare ognuna, eccetto quelle demenziali citate per prime). Quello che m’interessa è notare che all’origine di esse c’è il culto d’un’individualità ridotta al suo livello più rozzo e banale. Se Faust e gli altri romantici anelavano all’assoluto o ad altre vette dello Spirito, oggi ci troviamo di fronte a individui comuni, scialbi e noiosi, che si comportano in età adulta da bimbi: vogliono dar seguito a ogni loro capriccio e vogliono pure l’approvazione di chi li circonda. Sic transit gloria mundi.

[Curzio Malaparte, Kaputt, Adelphi, Milano 2009; Id., La pelle, Adelphi, Milano 2010; Id., Maledetti toscani, Vallecchi editore, Firenze 1956. La foto è tratta dall'articolo Curzio Malaparte della versione italiana di Wikipedia.]

Commenti

  1. Semplicemente grazie. Dopo anni ho ripreso a rileggere la Pelle, favorito in questo dai lunghi giorni di confinamento e dalla rilettura del Napoli '44 di Lewis singolare contraltare alla cupa visione malapartiana del tema. Spero di leggere ancora le sue stimolanti pagine.

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    1. Grazie a lei per le sue gentili parole.
      Non conoscevo il libro di Lewis, di cui sono andato a leggere il risvolto sul sito dell'Adelphi. Sarà una delle mie prossime letture.

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