La quantità come norma e valore del mondo moderno
In un saggio sul significato della Rivoluzione scientifica e tecnologica dell’età moderna, Hans Jonas ricostruisce il percorso che ha portato l’uomo ad avere un potere di modificazione sulla natura e su sé medesimo mai raggiunto né sognato prima. Jonas prende le mosse dall’epoca in cui tutto nacque, quel secolo e mezzo che va dalla pubblicazione del De revolutionibus orbium coelestium di Copernico ai Principia matematica di Newton. Oltre alla ricostruzione del cambiamento teorico avvenuto sia nell’astronomia (fine del geocentrismo e universo infinito) sia nella fisica (nuovo concetto di movimento), Jonas si sofferma sulla concezione metafisica della natura alla base della Rivoluzione scientifica. In breve, la natura per la scienza è una “sostanza universale indifferenziata, neutra e misurabile in termini di quantità”, che si muove ciecamente in perpetuo, “priva persino della più inconscia tendenza finalistica”. Cartesio fu il primo a concettualizzare questa nuova idea di natura, concependola come mera estensione (res extensa) suscettibile d’essere misurata. La misurazione, la quantificazione dei rapporti tra le cose è l'unica conoscenza vera che si può ottenere della natura. Ogni altra considerazione riguardo alle sue dinamiche è epistemologicamente inconsistente. In particolare tutte quelle che riguardano le informazioni peculiari forniteci dai sensi (colori, suoni, odori ecc.) sono oscure e imprecise.
Cartesio non trasse però le estreme conseguenze dalla nuova visione che aveva creato. La sua sincera fede cristiana lo aveva spinto a concepire una metafisica dove il finalismo (ovvero il mondo del senso e dei valori) aveva ancora posto. Il concetto di anima immortale (res cogitans) distinta dal corpo e, soprattutto, quello d’un dio infinito creatore dell’universo, mantenevano finalità e valore nella realtà. Toccò a Spinoza (un ebreo che aveva precocemente rinnegato la fede dei padri) a trarre le conseguenze implicite nella visione cartesiana, spazzando via non solo le stentate argomentazioni con cui Cartesio aveva cercato di mantenere in piedi il suo traballante edificio metafisico, ma anche ogni residuo di finalità e di valori (morali ed estetici) dal cosmo. La voce di Spinoza – una voce pacata e dura, apparentemente senza speranza, ma che offriva e offre una via per la serenità per chiunque sia persuaso dalla visione moderna del cosmo – rimase inascoltata. Bandito dalla comunità giudea da vivo, restò per secoli esiliato, o comunque neutralizzato, dalla comunità filosofica europea, fino a quando, alla fine Ottocento, il nichilismo implicito nella visione metafisica della natura alla base della scienza – ormai divenuta il sapere dominante, grazie anche alla rivoluzione industriale e al grande sviluppo della tecnica – esplose e travolse il pensiero e la società europea orfana del cristianesimo (ovviamente non intendo tacciare di nichilismo la filosofia spinoziana; sarebbe, più che un anacronismo, un grossolano fraintendimento ). La res cogitans era caduta sotto il grimaldello delle ricerche scientifiche e della riflessione filosofica. Non restava che la muta e indifferente res extensa, all’interno della quale era stata inserita anche la specie umana con le ricerche biologiche di Charles Darwin.
La scienza moderna, fondata sull'idea dell'invarianza delle relazioni espresse col principio di causa-effetto, è dunque deterministica. Al riguardo, una breve precisazione: col termine determinismo non intendo la concezione del mondo che pretende di conoscere in anticipo il corso degli eventi a tutti i suoi livelli e manifestazioni (il determinismo d'una psicanalisi volgarizzata, per esempio), ma la persuasione che la natura abbia un corso regolare, non sottoposto a scarti improvvisi e inspiegabili, quali, ad esempio, i miracoli, esprimibile mediante leggi per la maggior parte matematizzabili. A questo riguardo il cosiddetto indeterminismo della scienza novecentesca, come quello legato al principio di Heisenberg o alla scienza del caos, non è un indeterminismo ontologico, ma epistemologico. L'incapacità dell'uomo di prevedere certi eventi dipende dalla limitatezza dei mezzi e non dalla struttura intrinseca della natura (un limite del soggetto, non dell'oggetto).
Nello stesso saggio, Jonas fa un'interessante precisazione riguardo alla natura del determinismo moderno.
La scienza è, nel mondo contemporaneo, non soltanto il sapere, ma l'unico sapere. L'impressione prodotta dalle mirabolanti creazioni della tecnica che essa ha permesso è tale che il suo modello conoscitivo è dilagato a ogni livello della realtà (e non poteva essere altrimenti, data la visione sottende e sostiene la scienza). Così s'osserva un po' ovunque una furia quantificatrice che, oltre a cadere spesso nel ridicolo, appiattisce la molteplicità del reale e perviene a risultati che con la scienza poco hanno a che fare.
Stendhal fu un liberale atipico. Nei suoi scritti professa amore per la libertà e le "due camere" (così chiamava il governo rappresentativo), e allo stesso tempo li dissemina di dichiarazioni sulla noia e sul grigiore che avvolge quei luoghi (in particolare gli Stati Uniti d'America). Celebri le sue affermazioni sulla preferenza accordata all'Italia asservita e illiberale rispetto ai paesi anglosassoni: meglio rischiare la testa dove le belli arti e l'opera allietano la vita piuttosto che vivere liberi in mezzo a operosi e grossolani mercanti. E ancora: meglio fare la corte a Parigi a un ministro furfante ma raffinato e brillante, piuttosto che al pizzicagnolo all'angolo d'una strada di New York. Se nel secondo caso l'ascesa sociale sarà in qualche modo più morale (ma non troppo, visto come lui stesso descrive la società borghese nel Rosso e il nero e, soprattutto, in Lucien Leuwen), nel primo sarà certamente più piacevole. La raffinatezza e la cultura, seppur accompagnate dall'immoralità della vita quotidiana, rendono la vita interessante e viva, mentre l'austera esistenza del cittadino americano annoia e deprime. Eppure nelle libere e morali nazioni anglosassoni, che per Stendhal rappresentano il futuro dell'Europa, non si può fare altrimenti: come ottenere l'appoggio e i voti necessari per farsi una posizione in seno alla società?
La posizione di Stendhal, splendidamente ambigua, manifesta i turbamenti di chi percepiva quando si stava perdendo con l'avvento del mondo contemporaneo: la qualità come metro di misura del merito sociale (non si scambi questa qualità con la cosiddetta "meritocrazia", ovvero la capacità d'eccellere in un determinato ambito - la glorificazione della specializzazione). La società democratica, come notò acutamente Alexis de Tocqueville, è senza passato. L'uguaglianza di principio fra tutti i cittadini plasma un'ideologia anti-aristocratica, un'ideologia che non si cura da dove venga il singolo, che, anzi, nella sua manifestazione più pura (la società americana) innalza agli onori degli altari proprio coloro che, da umilissimi origini, ne raggiungono il vertice (i celeberrimi selfmade men). E questo non solo perché, teoricamente, chiunque può, che so, essere eletto deputato, governatore o presidente, ma anche perché si può entrare a far parte dell'élite della società semplicemente attraverso l'accumulo di denaro. Il criterio è di natura meramente quantitativa (la ricchezza permette d'ottenere, oltre che riconoscimento e rispetto, anche potere). Durante l'ancien régime, soprattutto nell'epoca del suo tramonto, c'erano stati borghesi ricchissimi, ma che per questo non avevano ottenuto rispetto e riconoscimento. E anche quando ottenevano, dopo anni di sacrifici, un titolo nobiliare, non diventano per questo parte integrante dell'aristocrazia. Perché l'aristocrazia era determinata da caratteristiche che nulla avevano a che fare col denaro: educazione, gusto, raffinatezza, tutte peculiarità legate all'ambiente. Ci si doveva, insomma, crescere in seno, altrimenti s'era soltanto un parvenue, un volgare arricchito. Oggi come allora, negli Stati Uniti, la vera terra della democrazia nell'Occidente moderno, l'unico paese che non abbia mai conosciuto un'aristocrazia istituzionalizzata (e si vede anche dal tipo di realizzazioni dello spirito che lì sono state prodotte dalla loro fondazione), il concetto di parvenue è estraneo, e vi troviamo quello di loser, il perdente. Da una parte è ridicolizzato ciò che dall'altra è ritenuto quanto di meglio un uomo possa fare nella vita.
Durante gli anni dell'adolescenza spesso sfogliavo smaniosamente i volumi della L'arte italiana di Piero Adorno, splendido libro di testo scelto dalla professoressa (che conservo e consulto ancora). Mi ricordo che andavo a cercare le misure degli edifici, soffermandomi su quelli dalle dimensioni maggiori. E non capivo perché, ad esempio, fosse dedicato più spazio al Partenone che all'ellenistico Tempio di Zeus Olimpio, edificio molto più grande e dunque, per i miei occhi ancora acritici, più notevole dell'altro (riguardo ai templi ellenistici, Adorno scrive proprio: "in architettura la grandiosa maestà dei templi greci si trasforma spesso in grandezza metrica, certo impressionante, ma, per lo più, teatrale"). Questo amore per l'enormità e la grandiosità numerica è una caratteristica peculiare del gusto contemporaneo. Ovunque ci si volti se ne scorgono tracce. Sul National Geographic Channel, per esempio, c'è un programma intitolato "megastrutture". Ogni puntata è dedicata alla descrizione di una struttura dalle dimensioni ciclopiche. Oltre a venirne mostrato l'aspetto, il conduttore si sofferma sulle difficoltà incontrate (e brillantemente superate) per costruirla. E' il culto dell'ingegneria e dell'ingegnosità, accompagnato dal totale disinteresse per i valori estetici. Quello che stupisce è esser riusciti a costruire qualcosa che fino a quel momento s'era pensato impossibile, o quantomeno arduo. Non importa che il suo aspetto sia ripugnante o anche solo anonimo: le dimensioni ciclopiche della realizzazione colpiscono e appagano l'animo dello spettatore. L'esperienza estetica è ridotta alla meraviglia per le dimensioni, che si tenta di rendere figurabili attraverso il paragone con oggetti che si presume lo spettatore abbia visto dal vivo ("è grande come tot autobus - jumbo 747 ecc."). Si potrebbe dire che questo è il sublime descritto da Kant, se non fosse che si tratta di un'esperienza indiretta e che queste strutture, quando viste di persona, spesso sono coglibili nella loro interezza solo da una tale distanza da cui viene ridimensionata la loro grandezza, in quanto va perduto il metro con cui le si misura: l'unità base che va smarrita per le dimensioni della struttura (celebre l'esempio kantiano delle piramidi egizie). Ma questi edifici sono spesso talmente grandi da impressionare soltanto la mente che pensa le loro dimensioni numericamente, e non l'immaginazione. Lo spettatore si meraviglia del numero, non di ciò che vede: una parte d'un tutto che non è percepito mai come tale se non quando è ormai troppo ridotto.
Ma la manifestazione più pura di quest'estetica della quantità è il cosiddetto "Guinness dei primati", l'albo mondiale di coloro che riescono a fare una qualsivoglia cosa nella maniera quantitativamente più rilevante (che può essere numericamente maggiore o minore, a seconda che si tratti di correre i cento metri oppure cucinare una pizza di proporzioni gargantuesche). Non è rilevante come lo si faccia: l'importante è farlo nella maniera più eccessiva. E anche quando si tratti di sciocchezze o d'attività di dubbio gusto, l'animo dell'occidentale è portato comunque ad ammirare la prestazione per la sua enormità.
Potrei continuare a elencare quanto la quantità abbia preso il sopravvento sulla qualità nella dimensione estetica dell'esperienza contemporanea. Sarebbe tuttavia un'inutile ripetizione. Chiunque ne fa esperienza quotidiana .
Manca, in questa breve e sommaria rassegna, l'ambito in cui il numero la fa da padrone incontrastato: l'economia. Ma mi permetto, invece di continuare a balbettare come ho fatto finora, di consigliare una lettura, che, immagino, ne stimolerà altre: l'Etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber. Vi si trova espressa una delle caratteristiche principali del mondo moderno: il romanticismo dei numeri.
[Il ritratto di Cartesio di Frans Hals è tratto dall'articolo Cartesio della versione italiana di Wikipedia; Hans Jonas, Dopo il XVII secolo: il significato della rivoluzione scientifica e tecnologica, in Dalla fede antica all'uomo tecnologico, il Mulino, Bologna 1991; Piero Adorno, L'arte italiana, Casa editrice G. D'Anna, Messina - Firenze 1992]
Frans Hals, Ritratto di Cartesio, 1649, Parigi, Museo del Louvre. |
Cartesio non trasse però le estreme conseguenze dalla nuova visione che aveva creato. La sua sincera fede cristiana lo aveva spinto a concepire una metafisica dove il finalismo (ovvero il mondo del senso e dei valori) aveva ancora posto. Il concetto di anima immortale (res cogitans) distinta dal corpo e, soprattutto, quello d’un dio infinito creatore dell’universo, mantenevano finalità e valore nella realtà. Toccò a Spinoza (un ebreo che aveva precocemente rinnegato la fede dei padri) a trarre le conseguenze implicite nella visione cartesiana, spazzando via non solo le stentate argomentazioni con cui Cartesio aveva cercato di mantenere in piedi il suo traballante edificio metafisico, ma anche ogni residuo di finalità e di valori (morali ed estetici) dal cosmo. La voce di Spinoza – una voce pacata e dura, apparentemente senza speranza, ma che offriva e offre una via per la serenità per chiunque sia persuaso dalla visione moderna del cosmo – rimase inascoltata. Bandito dalla comunità giudea da vivo, restò per secoli esiliato, o comunque neutralizzato, dalla comunità filosofica europea, fino a quando, alla fine Ottocento, il nichilismo implicito nella visione metafisica della natura alla base della scienza – ormai divenuta il sapere dominante, grazie anche alla rivoluzione industriale e al grande sviluppo della tecnica – esplose e travolse il pensiero e la società europea orfana del cristianesimo (ovviamente non intendo tacciare di nichilismo la filosofia spinoziana; sarebbe, più che un anacronismo, un grossolano fraintendimento ). La res cogitans era caduta sotto il grimaldello delle ricerche scientifiche e della riflessione filosofica. Non restava che la muta e indifferente res extensa, all’interno della quale era stata inserita anche la specie umana con le ricerche biologiche di Charles Darwin.
La scienza moderna, fondata sull'idea dell'invarianza delle relazioni espresse col principio di causa-effetto, è dunque deterministica. Al riguardo, una breve precisazione: col termine determinismo non intendo la concezione del mondo che pretende di conoscere in anticipo il corso degli eventi a tutti i suoi livelli e manifestazioni (il determinismo d'una psicanalisi volgarizzata, per esempio), ma la persuasione che la natura abbia un corso regolare, non sottoposto a scarti improvvisi e inspiegabili, quali, ad esempio, i miracoli, esprimibile mediante leggi per la maggior parte matematizzabili. A questo riguardo il cosiddetto indeterminismo della scienza novecentesca, come quello legato al principio di Heisenberg o alla scienza del caos, non è un indeterminismo ontologico, ma epistemologico. L'incapacità dell'uomo di prevedere certi eventi dipende dalla limitatezza dei mezzi e non dalla struttura intrinseca della natura (un limite del soggetto, non dell'oggetto).
Nello stesso saggio, Jonas fa un'interessante precisazione riguardo alla natura del determinismo moderno.
Il 'determinismo' della scienza moderna "non dev'essere confuso con alcuna delle credenze premoderne, nel destino, nella predestinazione, nella predeterminazione, e simili. Esso, in realtà, è il loro contrario, perché esclude il riferimento al futuro indicato nel prefisso 'pre'. Ciò significa che l'istante che segue è determinato sempre e soltanto da quello che precede, che non esistono tendenze a lungo termine verso qualcosa, ma solo un trasferimento della quantità massa-energia da momento a momento, e la vis a tergo di questa propagazione - in breve, non è il futuro che attira ma il passato che preme.Se questa è la natura, non stupiscono affatto né le conseguenze che ne trasse Leopardi (da una prospettiva antropocentrica, però), né il nichilismo tardo ottocentesco, né, soprattutto, la fede nel Progresso che, dal profetismo illuminista in poi, è diventata l'ideologia e il sentire ufficiale dei santificatori della scienza. Tale Progresso dovrebbe portare l'umanità nella vera età dell'oro, correttamente proiettata in avanti invece che scorta nelle remote plaghe del tempo, quando l'uomo era poco più che una bestia. Ciò che in Cartesio era proprio di Dio e della res cogitans (il regno dei valori e dei fini), negli adepti del Progresso veniva proiettato sulla natura, sia ritenendo essenziali all'uomo certe caratteristiche e diritti, sia ritenendo (il messianesimo ammantato di scientificità) l'approdo all'età dell'oro come il naturale sviluppo del fenomeno umanità. Ma questa dimensione valoriale non poteva reggere ai colpi non dico dei più neri pessimisti (ignorati o sbeffeggiati dai credenti nelle magnifiche sorti e progressive dell'umanità), ma neppure di chi onestamente aderiva alla visione del mondo sottesa all'impresa scientifica moderna. Ancora Spinoza aveva esplicitato il mondo senza futuro della scienza moderna: la perfezione è l'esistenza. In ogni momento quello che è non solo non poteva non essere, ma neppure può essere confrontato col passato o con un qualsivoglia modello che ci mostri come sarà o come dovrebbe essere il futuro, non essendoci né modelli ideali fuori dall'immaginazione fallace dell'uomo, né alcun motivo per ritenere che quanto ora è venuto a essere sia essenzialmente inferiore a quanto era o sarà. Le differenze, infatti, sono meramente quantitative, e in esse non si rinviene alcuna traccia di qualità che possa permettere un giudizio di valore. La perfezione, dunque, non può che essere l'esistenza.
La scienza è, nel mondo contemporaneo, non soltanto il sapere, ma l'unico sapere. L'impressione prodotta dalle mirabolanti creazioni della tecnica che essa ha permesso è tale che il suo modello conoscitivo è dilagato a ogni livello della realtà (e non poteva essere altrimenti, data la visione sottende e sostiene la scienza). Così s'osserva un po' ovunque una furia quantificatrice che, oltre a cadere spesso nel ridicolo, appiattisce la molteplicità del reale e perviene a risultati che con la scienza poco hanno a che fare.
Johan Olaf Soedermark, Ritratto di Stendhal, 1840, Versailles, Musée National du Chateau. |
Stendhal fu un liberale atipico. Nei suoi scritti professa amore per la libertà e le "due camere" (così chiamava il governo rappresentativo), e allo stesso tempo li dissemina di dichiarazioni sulla noia e sul grigiore che avvolge quei luoghi (in particolare gli Stati Uniti d'America). Celebri le sue affermazioni sulla preferenza accordata all'Italia asservita e illiberale rispetto ai paesi anglosassoni: meglio rischiare la testa dove le belli arti e l'opera allietano la vita piuttosto che vivere liberi in mezzo a operosi e grossolani mercanti. E ancora: meglio fare la corte a Parigi a un ministro furfante ma raffinato e brillante, piuttosto che al pizzicagnolo all'angolo d'una strada di New York. Se nel secondo caso l'ascesa sociale sarà in qualche modo più morale (ma non troppo, visto come lui stesso descrive la società borghese nel Rosso e il nero e, soprattutto, in Lucien Leuwen), nel primo sarà certamente più piacevole. La raffinatezza e la cultura, seppur accompagnate dall'immoralità della vita quotidiana, rendono la vita interessante e viva, mentre l'austera esistenza del cittadino americano annoia e deprime. Eppure nelle libere e morali nazioni anglosassoni, che per Stendhal rappresentano il futuro dell'Europa, non si può fare altrimenti: come ottenere l'appoggio e i voti necessari per farsi una posizione in seno alla società?
La posizione di Stendhal, splendidamente ambigua, manifesta i turbamenti di chi percepiva quando si stava perdendo con l'avvento del mondo contemporaneo: la qualità come metro di misura del merito sociale (non si scambi questa qualità con la cosiddetta "meritocrazia", ovvero la capacità d'eccellere in un determinato ambito - la glorificazione della specializzazione). La società democratica, come notò acutamente Alexis de Tocqueville, è senza passato. L'uguaglianza di principio fra tutti i cittadini plasma un'ideologia anti-aristocratica, un'ideologia che non si cura da dove venga il singolo, che, anzi, nella sua manifestazione più pura (la società americana) innalza agli onori degli altari proprio coloro che, da umilissimi origini, ne raggiungono il vertice (i celeberrimi selfmade men). E questo non solo perché, teoricamente, chiunque può, che so, essere eletto deputato, governatore o presidente, ma anche perché si può entrare a far parte dell'élite della società semplicemente attraverso l'accumulo di denaro. Il criterio è di natura meramente quantitativa (la ricchezza permette d'ottenere, oltre che riconoscimento e rispetto, anche potere). Durante l'ancien régime, soprattutto nell'epoca del suo tramonto, c'erano stati borghesi ricchissimi, ma che per questo non avevano ottenuto rispetto e riconoscimento. E anche quando ottenevano, dopo anni di sacrifici, un titolo nobiliare, non diventano per questo parte integrante dell'aristocrazia. Perché l'aristocrazia era determinata da caratteristiche che nulla avevano a che fare col denaro: educazione, gusto, raffinatezza, tutte peculiarità legate all'ambiente. Ci si doveva, insomma, crescere in seno, altrimenti s'era soltanto un parvenue, un volgare arricchito. Oggi come allora, negli Stati Uniti, la vera terra della democrazia nell'Occidente moderno, l'unico paese che non abbia mai conosciuto un'aristocrazia istituzionalizzata (e si vede anche dal tipo di realizzazioni dello spirito che lì sono state prodotte dalla loro fondazione), il concetto di parvenue è estraneo, e vi troviamo quello di loser, il perdente. Da una parte è ridicolizzato ciò che dall'altra è ritenuto quanto di meglio un uomo possa fare nella vita.
Durante gli anni dell'adolescenza spesso sfogliavo smaniosamente i volumi della L'arte italiana di Piero Adorno, splendido libro di testo scelto dalla professoressa (che conservo e consulto ancora). Mi ricordo che andavo a cercare le misure degli edifici, soffermandomi su quelli dalle dimensioni maggiori. E non capivo perché, ad esempio, fosse dedicato più spazio al Partenone che all'ellenistico Tempio di Zeus Olimpio, edificio molto più grande e dunque, per i miei occhi ancora acritici, più notevole dell'altro (riguardo ai templi ellenistici, Adorno scrive proprio: "in architettura la grandiosa maestà dei templi greci si trasforma spesso in grandezza metrica, certo impressionante, ma, per lo più, teatrale"). Questo amore per l'enormità e la grandiosità numerica è una caratteristica peculiare del gusto contemporaneo. Ovunque ci si volti se ne scorgono tracce. Sul National Geographic Channel, per esempio, c'è un programma intitolato "megastrutture". Ogni puntata è dedicata alla descrizione di una struttura dalle dimensioni ciclopiche. Oltre a venirne mostrato l'aspetto, il conduttore si sofferma sulle difficoltà incontrate (e brillantemente superate) per costruirla. E' il culto dell'ingegneria e dell'ingegnosità, accompagnato dal totale disinteresse per i valori estetici. Quello che stupisce è esser riusciti a costruire qualcosa che fino a quel momento s'era pensato impossibile, o quantomeno arduo. Non importa che il suo aspetto sia ripugnante o anche solo anonimo: le dimensioni ciclopiche della realizzazione colpiscono e appagano l'animo dello spettatore. L'esperienza estetica è ridotta alla meraviglia per le dimensioni, che si tenta di rendere figurabili attraverso il paragone con oggetti che si presume lo spettatore abbia visto dal vivo ("è grande come tot autobus - jumbo 747 ecc."). Si potrebbe dire che questo è il sublime descritto da Kant, se non fosse che si tratta di un'esperienza indiretta e che queste strutture, quando viste di persona, spesso sono coglibili nella loro interezza solo da una tale distanza da cui viene ridimensionata la loro grandezza, in quanto va perduto il metro con cui le si misura: l'unità base che va smarrita per le dimensioni della struttura (celebre l'esempio kantiano delle piramidi egizie). Ma questi edifici sono spesso talmente grandi da impressionare soltanto la mente che pensa le loro dimensioni numericamente, e non l'immaginazione. Lo spettatore si meraviglia del numero, non di ciò che vede: una parte d'un tutto che non è percepito mai come tale se non quando è ormai troppo ridotto.
Ma la manifestazione più pura di quest'estetica della quantità è il cosiddetto "Guinness dei primati", l'albo mondiale di coloro che riescono a fare una qualsivoglia cosa nella maniera quantitativamente più rilevante (che può essere numericamente maggiore o minore, a seconda che si tratti di correre i cento metri oppure cucinare una pizza di proporzioni gargantuesche). Non è rilevante come lo si faccia: l'importante è farlo nella maniera più eccessiva. E anche quando si tratti di sciocchezze o d'attività di dubbio gusto, l'animo dell'occidentale è portato comunque ad ammirare la prestazione per la sua enormità.
Potrei continuare a elencare quanto la quantità abbia preso il sopravvento sulla qualità nella dimensione estetica dell'esperienza contemporanea. Sarebbe tuttavia un'inutile ripetizione. Chiunque ne fa esperienza quotidiana .
Manca, in questa breve e sommaria rassegna, l'ambito in cui il numero la fa da padrone incontrastato: l'economia. Ma mi permetto, invece di continuare a balbettare come ho fatto finora, di consigliare una lettura, che, immagino, ne stimolerà altre: l'Etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber. Vi si trova espressa una delle caratteristiche principali del mondo moderno: il romanticismo dei numeri.
[Il ritratto di Cartesio di Frans Hals è tratto dall'articolo Cartesio della versione italiana di Wikipedia; Hans Jonas, Dopo il XVII secolo: il significato della rivoluzione scientifica e tecnologica, in Dalla fede antica all'uomo tecnologico, il Mulino, Bologna 1991; Piero Adorno, L'arte italiana, Casa editrice G. D'Anna, Messina - Firenze 1992]
Commenti
Posta un commento