Alcune considerazioni sul Faust

Sono trascorsi dieci anni dalla prima volta che m’avvicinai al Faust. Allora frequentavo il secondo anno di filosofia, e non saprei dire cosa mi spinse a leggere il capolavoro goethiano. Forse solo la sua fama. All’epoca divoravo classici. Volevo, in un impeto di consumismo letterario e di smania d’accumulazione, leggere tutti i capolavori riconosciuti della storia della cultura occidentale. Non m’importava d’approfondirli. Volevo soltanto poter dire d’averli letti e di conservarli nella mia biblioteca. Non sarà quindi difficile immaginare che tale stato d’animo fosse il meno adeguato a comprendere Faust. E’ trascorso un decennio in cui, dopo aver fatto ripetute esperienze, in tutti gli ambiti della vita, della frustrazione che ingenera tale atteggiamento, sono riuscito a diventarne consapevole (seppur non possa millantare d’essermene affrancato) e a coglierlo nel momento stesso in cui è all’opera. E soltanto adesso ho cominciato a capire perché Faust è considerato il simbolo dell’animo moderno, perché è guardato con stupore e riverenza. Quello che colpisce è che nel personaggio Faust è davvero condensato il modo in cui noi occidentali postromantici (cioè post rivoluzioni) ci rapportiamo quotidianamente con le cose e col mondo.
In Faust c’è tutta quell’inquietudine senza posa e senza oggetto che quotidianamente ci spinge a lavorare indefessamente e a smaniare da mane a sera per oggetti che di lontano c’appaiono talismani per la felicità e che, una volta possedutili, il più delle volte finiscono in un cassetto o vengono velocemente sostituiti. E che comunque, anche quando più apprezzati, non mantengono mai tutto quello che il loro splendore prometteva. C'è l'irrequietezza del vagare, la brama insaziabile di nuove esperienze non perché non ci soddisfi il contenuto di quelle che abbiamo fatto, ma perché non importa il contenuto, ma la forma della smania. E, perciò, essa non potrai mai essere saziata. Ma in Faust troviamo anche l’atteggiamento di noi moderni verso il sapere e la conoscenza, la nostra peculiare brama non di conoscere, ma d’esperire, che è inesorabilmente destinata a rimanere insoddisfatta. Il Faust è un monito rimasto inascoltato. Anzi, non di rado è stato traviato, considerato quasi come la celebrazione dell'uomo moderno quando, in realtà, non ne era che la rappresentazione, per la quale l'autore - così parziale per Mefistofele - non nutriva affatto simpatia.

Rembrandt, Faust, 1650-52, Amsterdam, Rijksmuseum.
L’azione prende avvio col celebre monologo dell’irrequietezza e dell’insoddisfazione. Faust è solo, nel suo studio gotico (una stanza alta e stretta: già la scelta del luogo preannuncia una caratteristica del protagonista: l’estraneità all’equilibrio, all’armonia, alla finitezza – l’estraneità all’elemento classico della cultura occidentale). Ha perso ogni speranza sulle possibilità conoscitive dell’uomo. Esplorato tutto lo scibile, s’è reso conto della sua vanità. In nessun luogo ha trovato la risposta alle sue domande, la pace che avrebbe messo fine alla sua inquietudine. La sazietà l’ha avvinto. Lo scacco della conoscenza s’è riverberato sugli altri ambiti della sua vita: non prova ormai piacere per nulla. Così Faust confessa d’essersi dato alla magia come estremo tentativo per giungere alla verità. La magia, dunque, è qualcosa di diverso dal sapere. Non è mero sapere: è fare, è manipolazione. Attraverso di essa Faust aveva tentato di conoscere l’intima struttura del mondo. Ma conoscenza non è il termine adatto. Faust non s’aspettava dalla pratica della magia d’arrivare a possedere il Logos, il discorso definitivo sul reale. Impaziente, sperava che una formula magica o la forza interiore dello Spirito (durch Geistes Kraft) gli manifestassero d’improvviso la verità.
Sconsolato, Faust rivolge le sue parole alla luna, e fantastica disperato di librarsi sull’opaca gravezza che lo attanaglia. Vorrebbe liberarsi dalla vuotezza del sapere mondano, per congiungersi all’elemento vivificante. Non considera più il logos capace di cogliere la struttura del cosmo, ma un vano discorrere che impedisce all’uomo di cogliere la verità, che pare attingibile soltanto attraverso l’unione con la natura (la natura naturans). Contrappone, insomma, la natura vivente alla staticità e alla corruzione del sapere.
A questo punto entra in scena lo Spirito della Terra. Faust lo evoca leggendo un libro di Nostradamus.
Quando gli appare, dapprima non riesce a tollerarne la vista. Vinto l’abbacinamento, osa infine guardarlo. Lo Spirito della Terra prorompe allora in un canto che disvela una sorta di panteismo vitalistico, l’idea d’una natura abitata da un principio vivificante che tutto pervade e tutto determina. Faust nella sua sciocca presunzione si crede per un attimo pervaso dalla stessa energia creatrice e farnetica perfino riguardo alla loro somiglianza. Ma lo Spirito ne spegne gli ardori dicendogli che non c’è alcuna somiglianza tra loro due, che Faust si sente simile solo a quello spirito prodotto dalla sua immaginazione. E sparisce. La disperazione è tale che, dopo un colloquio col suo assistente arido e pedante (un erudito, la cui massima aspirazione è quella di diventare una sorta d’enciclopedia ambulante), Faust decide di suicidarsi. Solo i canti e le campane della Pasqua riescono a fermargli la mano. Ma non è una vera rinascita. Faust è richiamato alla vita non dall’attesa fiduciosa del futuro, ma dalla dolcezza del ricordo, dal prorompere della memoria della fanciullezza, quando ancora viveva, inconsapevole e lieto, il mistero cristiano.
Il passo (I, vv. 1224-1237) sulla traduzione del versetto giovanneo In principium erat Verbum – Ἐη ἀρχῇ ἦν ὁ λóγος, è a ragione considerato uno dei più importanti per comprendere l’opera. Tornato dalla passeggiata col suo famulus Wagner, Faust si trova di nuovo nel suo studio, questa volta non solo, però. Assieme a lui c’è un cane randagio, un barbone che aveva incontrato durante l’uscita e che l’aveva seguito fino a casa. Il randagio non è altri che Mefistofele, che presto gli si rivelerà. Prima dell’incontro col diavolo, Faust prende il Nuovo testamento, nella speranza che il testo sacro lo aiuti a permanere in quel felice stato d’animo d'apertura alla vita che era sorto a seguito della rinuncia al suicidio delle notte precedente . Il caso vuole che sia la prima pagina dell’Evangelo di Giovanni a cadergli sotto gli occhi. La lettura s’interrompe subito, però. La ferma la traduzione del termine logos, sia in latino che in tedesco. La Vulgata traduce Verbum, e Lutero ne accetta l’interpretazione, traducendo con das Wort – la Parola, appunto. Faust, invece, non ne è per nulla soddisfatto. Gli sembra che tale termine sia inadeguato a rendere quel che il greco logos  veicola.
Sta scritto: “In principio era la Parola” (das Wort).
E eccomi già fermo. Chi m’aiuta a procedere?
M’è impossibile dare a “Parola”
tanto valore. Devo tradurre altrimenti,
se mi darà giusto lume lo Spirito.
Sta scritto: “In principio era il Pensiero” (der Sinn).
Medita bene il primo rigo,
ché non ti corra troppo la penna.
Quel che tutto crea e opera, è il Pensiero?
Dovrebb’essere: “In principio era l’Energia” (die Kraft).
Pure, mentre trascrivo questa parola, qualcosa
mi dice che non potrò qui fermarmi.
Mi dà aiuto lo Spirito! Ecco che vedo chiaro
e, ormai, sicuro, scrivo: “In principio era l’Azione” (die Tat).
La traduzione faustiana di logos con Tat (azione, atto, opera, impresa), è il perfetto sunto della visione e della ricerca di Faust. Tutto quello che ha preceduto questo passo ci ha mostrato un Faust alla disperata ricerca d’un’esperienza che sia essa stessa verità. A quello che dicono i libri, alla ricerca della verità attraverso il logos (parola, discorso, pensiero), una verità di natura noetica, Faust non crede né, soprattutto, s’interessa più. Dio non crea più con la parola. Dio agisce. Dio, cioè, è pensato alla maniera moderna, come un uomo che plasmi con la sua attività indefessa. La parola per Faust ha perso il suo originario significato creativo, la sua capacità d’imbrigliare la natura. Benché si rivolga alla magia, Faust è in realtà interessato più al suo lato alchemico-manipolativo. Di questo passo, però, si potrebbe tuttavia azzardare un altro livello interpretativo, collegato al “canto” dello Spirito della Terra. La parola creatrice, pur essendo comunque movimento – il movimento del pensiero che s’esaurisce nel suo pronunciarsi  (un puntiforme fiat può sì essere inteso come un eterno e, perciò, immobile, “pronunciamento fuori dal tempo”; tuttavia, far venire alla luce, creare ex-nihilo, resta comunque un movimento dal non essere all’essere – a meno che non si concepisca, in termini neoplatonici, l’emanazione del cosmo sensibile da una divinità ineffabile come intrinseca e, quindi, eterna, necessità). L’azione, invece, ha un suo protrarsi, un rinnovarsi che si manifesta nel perenne cangiamento della natura. Forse Goethe con Tat ha voluto indicarci la sua concezione non personalistica della divinità. In fondo, Faust inneggia alla sempiterna vitalità della natura (splendidi, al riguardo, i versi 1070-1099). Le immagini che ricorrono sono solari e ignee, ed è la chiarità che tutto informa e anima a essere celebrata (sole/luce/fuoco – animazione, energia plasmante).

Eugène Delacroix, Mefistofele, 1828, Parigi, Musée Eugène Delacroix.
Quando Mefistofele gli si manifesta, Faust è dunque vicino a ricadere nella disperazione che l’aveva quasi portato al suicidio. Il primo incontro si svolge tutto secondo le credenze medievali sui diavoli. Il secondo, invece, vede subito Mefistofele esortare Faust a darsi alla vita. Faust replica con alti lai, con battute in cui sciorina un profondo disprezzo per la vita e un’amara lamentazione per la miserabile sorte dell’uomo. Ma  Mefistofele non ci casca, e ne castiga ironicamente la presunzione, sottolineando il compiacimento di Faust nel crogiolarsi nella sofferenza e nel disprezzo. La fuga dal mondo in un oltre non ben definito (storico o metafisico che sia) era una caratteristica dell’epoca romantica (caratteristica che, volgarizzatasi, è rimasta anche nel mondo contemporaneo). Ecco allora che Mefistofele si propone come servo di Faust, per farlo uscire da quello stato di dolorosa insoddisfazione, per fargli assaggiare tutte le dolcezze di questo mondo. A patto che Faust, nell’altro, divenga il servo di Mefistofele. Faust accetta senza alcun indugio. Il suo radicale immanentismo emotivo non lascia spazio a tentennamenti o paure. Faust è prima di tutto indifferente alla questione se vi sia o meno una vita dopo la morte. Quello che per lui conta è la piena soddisfazione durante la vita terrena, la vita “naturale”. Ma Faust firma il patto perché in cuor suo sa che non la potrebbe mai ottenere. La sua insaziabile brama senza oggetto, quella lui chiama pomposamente “brama d’infinito”, non è, per definizione, soddisfabile da esperienze mondane. E neppure dalla conoscenza o da una qualsivoglia religiosità, escluse entrambe dal suo orizzonte esistenziale. Quindi la possibilità che Faust dica all’attimo: “ma rimani! Tu sei così bello!” (I, v. 1700) è, emotivamente, una contraddizione in termini. La battuta successiva di Faust rivela un altro pezzo della sua visione del mondo: “Quando io mi fermi, essere lo schiavo/ tuo o di un altro, che importa!” (I, vv. 1710-1711). L’immobilità è morte, pur essendo, in questo caso, anche compimento, lo stato di chi non ha più nulla da cercare. La tranquillità dell’animo, immagine mondana dell’eternità, è trattata da Faust con indifferente disprezzo. E’ uno dei segni più importanti della mutata sensibilità moderna, che si ripresenta da allora in ogni ambito della vita. Un esempio volutamente triviale: quante volte abbiamo sentito esortare – in film, programmi televisivi, pubblicità – a non fermarsi mai, ad andare incontro sempre a “nuove sfide”? E quanti sono spaventati non solo dalla noia dell’inattività, ma anche dalla convinzione ch’essa sia uno stato d’abbrutimento, un abbassamento dell’uomo, che nell’attività continua e indefessa troverebbe la piena realizzazione della sua umanità? Certo, Faust non anela a una tale, borghese realizzazione. Ma è la forma quella che conta. E la forma è la medesima in Faust e nel più arido e banale dei carrieristi contemporanei.
Ma nessuna paura che io rompa l’accordo.
Desiderare (Streben) con ogni mia forza
è appunto quello che prometto.
Mi sono gonfiato di troppa superbia:
sono soltanto al tuo livello.
Quello Spirito sublime mi ha sprezzato,
davanti a me la Natura si chiude.
Il filo del pensiero è rotto.
Qualunque sapere, e da quanto, mi nausea.
Desideri che bruciano, calmarli
in fondo alle libidini
avvolto in arti occulte
disporre subito d’ogni prodigio!
Precipitiamoci nel fremito del tempo,
nel roteare degli eventi!
Allora dolori e piaceri,
successi e delusioni,
s’avvicendino pure, come capita.
Solo se non ha requie l’uomo impegna sé stesso.
Altra battuta capitale (I, vv. 1741-1759). La bramosia incessante e senza oggetto, il disprezzo per la conoscenza, l’impazienza di godere e di provare (nemica d’ogni esperienza seria e profonda), il “buttarsi a capofitto nella vita”, senza che la riflessione e la ponderazione vi prendano parte – anzi, escludendole volontariamente. Non sarà difficile riconoscere nelle parole del dott. Georg Faust la forma mentis et animi dell’uomo contemporaneo. La differenza sta solo in cosa si desidera, come s’esplica. Ma, ripeto, la forma è la medesima.
Alla smodatezza, all’eccesso, all’assurdo anelito non all’unione mistica col divino, ma al farsi dio, al salire, per così dire, di livello ontologico, risponde Mefistofele, davvero uomo d’altri tempi: “Tu sei in fondo… quello che sei./ Mettiti in testa parrucche con centomila riccioli,/ mettiti ai piedi coturni alti un braccio,/ resterai quello che sei.” (I, vv. 1806-1809). Faust dice di capire, ma, in cuor suo, il buon senso e la misuratezza di Mefistofele gli sono estranei, come il prosieguo dell’opera dimostrerà ampiamente.

Caspar David Friedrich, Il viandante sul mare di nebbia, 1817-18, Amburgo, Kunsthalle. La figura del Viandante (in tedesco Wanderer, da wandern: vagare, errare) si ritrova spesso nella cultura romantica tedesca. Lo stesso Goethe l'aveva già usata in gioventù, tra l'altro nel famoso Wanderers NachtliedIl canto notturno del viandante, celebre poesia composta tra il 1776 e il 1780.
Il quinto atto della seconda parte del Faust s’apre con la scena che si svolge in aperta campagna. Un viandante (Wanderer) saluta lieto il ritorno in un luogo caro alla sua memoria. Lì, in un tempo ormai lontano, fu salvato dai marosi e rifocillato da una coppia, ormai all’estremo della vita. Lì è tornato per rendere di nuovo grazie ai salvatori d’un tempo. Dopo i saluti, il viandante vorrebbe inginocchiarsi per pregare di fronte al mare, immagine sensibile dell’Assoluto (e qui torna alla mente l’immagine spinoziana del mare e delle onde come esempio del rapporto tra la sostanza e i modi, le sue manifestazioni sensibili; anche se questo passo, visto l’atto del pregare, non può certo dirsi meramente spinoziano). Ma non gli è possibile farlo. L’opera di Faust ha cacciato via il mare, e, al suo posto, vi sono giardini e campi. L’uomo è interessato soltanto a operare, a modificare, indifferente a tutto, cieco di fronte al mare, ormai ridotto a una mera via di comunicazione, che non evoca più nulla. E’ il regno dell’uomo, grandioso e autoreferenziale, privo, però, di ogni fondamento. Ma Faust non ha ancora spazzato via tutto il vecchio mondo, il mondo della fede, della misuratezza, del limite. Sono rimasti quel campicello, quella casetta e quel campanile, ultime, misere vestigia dell’epoca passata e del vecchio Dio. E Faust, centenario eppure ancora agitato da quella brama che aveva manifestato a Mefistofele al momento del loro primo incontro (“nell’abbondanza sentire cosa ci manca,/ questo è il tormento più amaro” II, vv. 11251-11252), non può accettare che vi sia un solo angolo del suo regno che ancora preservi l’antica vita. Ordina allora Mefistofele di “spostare” i vecchi. Magnanimo, ha destinato a quegli ostinati una casa più bella e più comoda di quella a cui pertinacemente restano attaccati. Ma la caparbietà dei vecchi è tale che Mefistofele e i suoi scagnozzi sono costretti a ucciderli assieme al loro ospite. Faust protesta per quella violenza. Protesta ipocritamente, non avendo mai voluto capire che il nuovo mondo s’erge su di essa, che il regno del fare e del manipolare porta con sé la distruzione di tutto ciò che gli si oppone, sia esso una casa oppure coloro che vi abitano. L'irrequietezza e la brama di fare, di sentire, di manipolare, d'esperire – una brama che consuma e distrugge i suoi oggetti, a cui non è mai realmente interessata – e ormai cristallizzatesi nella dinamica capitalistica (senza fine e senza oggetto, avente come scopo il mero accrescersi e perpetuarsi), sono al fondo d'una civiltà che si crede, come Faust, magnanima e miglioratrice, mentre distoglie lo sguardo da quelli che sono i veri, sinistri motori di tutti i suoi mirabolanti progressi.


[Le citazioni dell'opera sono tratte da: Faust, trad. it. di Franco Fortini, Mondadori, Milano 2001; le immagini delle opere di Rembrandt e Friedrich sono tratte dalla Web gallery of art; quella di Delacroix dall'articolo Mephistopheles dell'edizione inglese di Wikipedia]


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