Alcune considerazioni sul Faust
In Faust c’è tutta quell’inquietudine senza posa e senza oggetto che quotidianamente ci spinge a lavorare indefessamente e a smaniare da mane a sera per oggetti che di lontano c’appaiono talismani per la felicità e che, una volta possedutili, il più delle volte finiscono in un cassetto o vengono velocemente sostituiti. E che comunque, anche quando più apprezzati, non mantengono mai tutto quello che il loro splendore prometteva. C'è l'irrequietezza del vagare, la brama insaziabile di nuove esperienze non perché non ci soddisfi il contenuto di quelle che abbiamo fatto, ma perché non importa il contenuto, ma la forma della smania. E, perciò, essa non potrai mai essere saziata. Ma in Faust troviamo anche l’atteggiamento di noi moderni verso il sapere e la conoscenza, la nostra peculiare brama non di conoscere, ma d’esperire, che è inesorabilmente destinata a rimanere insoddisfatta. Il Faust è un monito rimasto inascoltato. Anzi, non di rado è stato traviato, considerato quasi come la celebrazione dell'uomo moderno quando, in realtà, non ne era che la rappresentazione, per la quale l'autore - così parziale per Mefistofele - non nutriva affatto simpatia.
Rembrandt, Faust, 1650-52, Amsterdam, Rijksmuseum. |
Sconsolato, Faust rivolge le sue parole alla luna, e fantastica disperato di librarsi sull’opaca gravezza che lo attanaglia. Vorrebbe liberarsi dalla vuotezza del sapere mondano, per congiungersi all’elemento vivificante. Non considera più il logos capace di cogliere la struttura del cosmo, ma un vano discorrere che impedisce all’uomo di cogliere la verità, che pare attingibile soltanto attraverso l’unione con la natura (la natura naturans). Contrappone, insomma, la natura vivente alla staticità e alla corruzione del sapere.
A questo punto entra in scena lo Spirito della Terra. Faust lo evoca leggendo un libro di Nostradamus.
Quando gli appare, dapprima non riesce a tollerarne la vista. Vinto l’abbacinamento, osa infine guardarlo. Lo Spirito della Terra prorompe allora in un canto che disvela una sorta di panteismo vitalistico, l’idea d’una natura abitata da un principio vivificante che tutto pervade e tutto determina. Faust nella sua sciocca presunzione si crede per un attimo pervaso dalla stessa energia creatrice e farnetica perfino riguardo alla loro somiglianza. Ma lo Spirito ne spegne gli ardori dicendogli che non c’è alcuna somiglianza tra loro due, che Faust si sente simile solo a quello spirito prodotto dalla sua immaginazione. E sparisce. La disperazione è tale che, dopo un colloquio col suo assistente arido e pedante (un erudito, la cui massima aspirazione è quella di diventare una sorta d’enciclopedia ambulante), Faust decide di suicidarsi. Solo i canti e le campane della Pasqua riescono a fermargli la mano. Ma non è una vera rinascita. Faust è richiamato alla vita non dall’attesa fiduciosa del futuro, ma dalla dolcezza del ricordo, dal prorompere della memoria della fanciullezza, quando ancora viveva, inconsapevole e lieto, il mistero cristiano.
Il passo (I, vv. 1224-1237) sulla traduzione del versetto giovanneo In principium erat Verbum – Ἐη ἀρχῇ ἦν ὁ λóγος, è a ragione considerato uno dei più importanti per comprendere l’opera. Tornato dalla passeggiata col suo famulus Wagner, Faust si trova di nuovo nel suo studio, questa volta non solo, però. Assieme a lui c’è un cane randagio, un barbone che aveva incontrato durante l’uscita e che l’aveva seguito fino a casa. Il randagio non è altri che Mefistofele, che presto gli si rivelerà. Prima dell’incontro col diavolo, Faust prende il Nuovo testamento, nella speranza che il testo sacro lo aiuti a permanere in quel felice stato d’animo d'apertura alla vita che era sorto a seguito della rinuncia al suicidio delle notte precedente . Il caso vuole che sia la prima pagina dell’Evangelo di Giovanni a cadergli sotto gli occhi. La lettura s’interrompe subito, però. La ferma la traduzione del termine logos, sia in latino che in tedesco. La Vulgata traduce Verbum, e Lutero ne accetta l’interpretazione, traducendo con das Wort – la Parola, appunto. Faust, invece, non ne è per nulla soddisfatto. Gli sembra che tale termine sia inadeguato a rendere quel che il greco logos veicola.
Sta scritto: “In principio era la Parola” (das Wort).La traduzione faustiana di logos con Tat (azione, atto, opera, impresa), è il perfetto sunto della visione e della ricerca di Faust. Tutto quello che ha preceduto questo passo ci ha mostrato un Faust alla disperata ricerca d’un’esperienza che sia essa stessa verità. A quello che dicono i libri, alla ricerca della verità attraverso il logos (parola, discorso, pensiero), una verità di natura noetica, Faust non crede né, soprattutto, s’interessa più. Dio non crea più con la parola. Dio agisce. Dio, cioè, è pensato alla maniera moderna, come un uomo che plasmi con la sua attività indefessa. La parola per Faust ha perso il suo originario significato creativo, la sua capacità d’imbrigliare la natura. Benché si rivolga alla magia, Faust è in realtà interessato più al suo lato alchemico-manipolativo. Di questo passo, però, si potrebbe tuttavia azzardare un altro livello interpretativo, collegato al “canto” dello Spirito della Terra. La parola creatrice, pur essendo comunque movimento – il movimento del pensiero che s’esaurisce nel suo pronunciarsi (un puntiforme fiat può sì essere inteso come un eterno e, perciò, immobile, “pronunciamento fuori dal tempo”; tuttavia, far venire alla luce, creare ex-nihilo, resta comunque un movimento dal non essere all’essere – a meno che non si concepisca, in termini neoplatonici, l’emanazione del cosmo sensibile da una divinità ineffabile come intrinseca e, quindi, eterna, necessità). L’azione, invece, ha un suo protrarsi, un rinnovarsi che si manifesta nel perenne cangiamento della natura. Forse Goethe con Tat ha voluto indicarci la sua concezione non personalistica della divinità. In fondo, Faust inneggia alla sempiterna vitalità della natura (splendidi, al riguardo, i versi 1070-1099). Le immagini che ricorrono sono solari e ignee, ed è la chiarità che tutto informa e anima a essere celebrata (sole/luce/fuoco – animazione, energia plasmante).
E eccomi già fermo. Chi m’aiuta a procedere?
M’è impossibile dare a “Parola”
tanto valore. Devo tradurre altrimenti,
se mi darà giusto lume lo Spirito.
Sta scritto: “In principio era il Pensiero” (der Sinn).
Medita bene il primo rigo,
ché non ti corra troppo la penna.
Quel che tutto crea e opera, è il Pensiero?
Dovrebb’essere: “In principio era l’Energia” (die Kraft).
Pure, mentre trascrivo questa parola, qualcosa
mi dice che non potrò qui fermarmi.
Mi dà aiuto lo Spirito! Ecco che vedo chiaro
e, ormai, sicuro, scrivo: “In principio era l’Azione” (die Tat).
Eugène Delacroix, Mefistofele, 1828, Parigi, Musée Eugène Delacroix. |
Ma nessuna paura che io rompa l’accordo.Altra battuta capitale (I, vv. 1741-1759). La bramosia incessante e senza oggetto, il disprezzo per la conoscenza, l’impazienza di godere e di provare (nemica d’ogni esperienza seria e profonda), il “buttarsi a capofitto nella vita”, senza che la riflessione e la ponderazione vi prendano parte – anzi, escludendole volontariamente. Non sarà difficile riconoscere nelle parole del dott. Georg Faust la forma mentis et animi dell’uomo contemporaneo. La differenza sta solo in cosa si desidera, come s’esplica. Ma, ripeto, la forma è la medesima.
Desiderare (Streben) con ogni mia forza
è appunto quello che prometto.
Mi sono gonfiato di troppa superbia:
sono soltanto al tuo livello.
Quello Spirito sublime mi ha sprezzato,
davanti a me la Natura si chiude.
Il filo del pensiero è rotto.
Qualunque sapere, e da quanto, mi nausea.
Desideri che bruciano, calmarli
in fondo alle libidini
avvolto in arti occulte
disporre subito d’ogni prodigio!
Precipitiamoci nel fremito del tempo,
nel roteare degli eventi!
Allora dolori e piaceri,
successi e delusioni,
s’avvicendino pure, come capita.
Solo se non ha requie l’uomo impegna sé stesso.
Alla smodatezza, all’eccesso, all’assurdo anelito non all’unione mistica col divino, ma al farsi dio, al salire, per così dire, di livello ontologico, risponde Mefistofele, davvero uomo d’altri tempi: “Tu sei in fondo… quello che sei./ Mettiti in testa parrucche con centomila riccioli,/ mettiti ai piedi coturni alti un braccio,/ resterai quello che sei.” (I, vv. 1806-1809). Faust dice di capire, ma, in cuor suo, il buon senso e la misuratezza di Mefistofele gli sono estranei, come il prosieguo dell’opera dimostrerà ampiamente.
[Le citazioni dell'opera sono tratte da: Faust, trad. it. di Franco Fortini, Mondadori, Milano 2001; le immagini delle opere di Rembrandt e Friedrich sono tratte dalla Web gallery of art; quella di Delacroix dall'articolo Mephistopheles dell'edizione inglese di Wikipedia]
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