Il problema del logos. Parmenide e Platone

A seguito della celebre opera di Hermann Diels (I frammenti dei presocratici, pubblicata nell’ormai lontano 1903), è invalsa l’abitudine di suddividere la filosofia greca in pre e postsocratica. Socrate è considerato come il punto di svolta nella storia del pensiero antico per i nuovi temi da lui affrontati. Rispetto alle speculazioni sulla natura tipiche del pensiero che lo precedette, con Socrate irrompono l’uomo e la polis, ovvero la riflessione antropologico ed etico-politica. Platone, poi, procederà all’unione dei due filoni, dando vita alla prima visione filosofica complessiva della storia del pensiero occidentale. Certuni, in verità, preferiscono il termine presofisti, perché Socrate filosofò proprio in reazione all’insegnamento dei maestri della sofistica. Comunque sia, la svolta nel pensiero greco è collocata ad Atene nel V secolo a.c., quando l’uomo diviene il centro d’interesse dei pensatori allora in attività.
Questa suddivisione è utile e, da un certo punto di vista, corretta. Atene apportò alla filosofia una serie di nuovi temi che la arricchirono e contribuirono in modo determinante a plasmarla. Tuttavia, fare dei pensatori precedenti al fiorire di Atene un unico fascio non solo non rende giustizia alla ricchezza e alla diversità della riflessione pre-ateniese, ma finisce per celare quella che fu forse la svolta più radicale e ricca di conseguenze di tutta la storia del pensiero occidentale: la riflessione di Parmenide di Elea.

Come sa ogni studente di liceo, i primi filosofi andavano in cerca dell’archè (ἀρχή) dell’universo. L’archè – termine che ha il duplice significato di principio, origine e di comando, potere, autorità – è sia la materia di cui tutto è fatto e da cui tutto deriva, sia la forza che determina e permette di comprendere il sorgere e lo scomparire di tutte le cose. Non c’era unanimità sulla natura dell’archè: Talete riteneva che fosse l’acqua, Anassimene l’aria, Eraclito il fuoco, Anassimandro l’apeiron (ἄπειρον), i pitagorici il numero (da notare che negli ultimi due l’archè non è considerato un ente materiale, ma un alcunché di astratto, nel senso che non è qualcosa di cui si possa fare esperienza coi sensi).
Prendiamo Eraclito come esempio della riflessione preparmenidea. Per il filosofo di Efeso il mondo è un flusso in perenne divenire, in trasformazione continua, il cui archè è il fuoco, elemento mobile, distruttore e rinnovatore per eccellenza. Un elemento fondamentale della visione eraclitea è l’idea dell’unità dei contrari che cozzano tra loro, il cui momentaneo equilibrio dà l’ente di cui facciamo esperienza, il quale, però, è destinato a scomparire per l’intima legge di dissoluzione che ha portato alla sua comparsa. Ma questi contrari sono in realtà apparenti, non sono che manifestazioni del fuoco, elemento divino che ha in sé la legge del suo perenne mutamento.
Parmenide filosofò proprio contro una tale spiegazione del mondo. Per primo fece dell’assoluta coerenza del discorso la misura della verità. Il suo pensiero ebbe un tale impatto sul mondo greco che già i presocratici che vennero immediatamente dopo di lui non poterono fare a meno di confrontarvisi, tanto da cercare la conciliazione tra l’esigenza dei primi pensatori di render conto del fluire del mondo sensibile con l’assoluto rigore del pensiero che contraddistingue il filosofo di Elea.

Prima di proseguire con la sommaria illustrazione della svolta parmenidea, vorrei chiarire la peculiarità del greco logos (λόγος) rispetto all’italiano ragione, derivato dal latino ratio. Il termine greco logos significa: parola, discorso, ragionamento, pensiero discorsivo, e deriva dal verbo lego (λέγω), che significa dire, parlare. Il termine latino ratio, invece, deriva dal verbo reor, il cui significato originario era calcolare, stabilire, contare. Così, mentre in logos l’accento è sulla parola, sul pensiero discorsivo, in ratio è sul calcolo, sul computare, su un’attività diversa da quella che il termine greco indica. Perciò è sempre bene tener presente il termine greco logos: non ammette ambiguità e non necessita ulteriori spiegazioni o delimitazioni (al riguardo, si pensi alla traduzione della Vulgata del giovanneo: Ἐη ἀρχῇ ἦν ὁ λóγος: In principium erat verbumIn principio era il verbo, la parola. Va persa la polisemia del greco, la sua capacità di veicolare significati più ampi rispetto alla mera parola indicata dal termine latino).

L’accusa che Parmenide portò ai pensatori che lo precedettero fu quella d’assurdità. Nelle dottrine di filosofi come Eraclito, Parmenide rinveniva palesi contraddizioni logiche che, secondo lui, ne inficiavano la validità. Questo perché è l’assoluta coerenza del discorso (logos) a determinare la verità della dottrina e la conseguente corrispondenza con la realtà delle cose. Il fuoco di Eraclito, ad esempio, è e non è fuoco. E’ fuoco, quando tale si manifesta ai sensi. Non è fuoco, quando invece prende la forma d’un qualsivoglia altro fenomeno naturale. Ora, per Parmenide non è possibile che qualcosa sia e non sia allo stesso tempo, secondo quel principio d’identità che per primo individuò ed espose. Ma cos’è, per Parmenide, che non viola tale sommo principio del pensiero e del reale? L’essere, il solo essere, puro, sempre identico a sé stesso, immobile e immutabile, eterno, fuori dal tempo (l’eternità non è il permanere indefinito di qualcosa che, seppur nel tempo, non ne venga mai distrutta – tale concetto va sotto il nome di sempiternità – ma l’atemporalità, il non essere soggetto al tempo, ovvero a qualsivoglia mutamento/movimento). La Realtà è l’Essere, l’Essere è la Realtà. Null’altro non è soggetto a contraddizione, null’altro è sempre uguale a sé stesso, un’affermazione assoluta, il cui concetto è privo d’ogni negazione. E perciò null’altro esiste - è.
Per comprendere appieno la visione parmenidea bisogna tener presente il breve ma fondamentale frammento 3: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι – infatti lo stesso è pensare ed essere. Ovvero: quel che verrà espresso in maniera coerente dal pensiero, senza alcuna contraddizione, corrisponderà alla Realtà (maiuscolo per distinguerla dal concetto espresso nel linguaggio quotidiano: il mondo di cui si fa quotidiana esperienza coi sensi). Partendo da questo presupposto, ripeto, l’unica realtà è il puro essere. Tutto il resto, violando palesemente il principio d’identità, è mera illusione.
Zenone s’adoperò a dimostrare la correttezza della dottrina del suo maestro elaborando i suoi celebri e sottilissimi paradossi riguardo al movimento e alla pluralità delle cose. Ribattere a tali ragionamenti portando l’esperienza quotidiana significa non comprenderli. Essi partono dall’idea che solo la pura coerenza del pensiero porti alla verità. E’ proprio tale presupposto, invece, che dovrebbe essere messo in discussione. Altrimenti ogni attacco a Zenone è destinato a fallire.

Parmenide è il vero punto di svolta del pensiero occidentale. Col primato del logos e della sua assoluta coerenza ha segnato la storia della filosofia in maniera indelebile, più d’ogni altro pensatore non tanto per l’ampiezza e la molteplicità delle sue riflessioni, ma per la ben più importante struttura di fondo che si rinviene in ogni impresa filosofica della nostra storia. Da lui in poi, il rapporto tra logos e realtà sensibile sarà centrale, e si ripresenterà, uguale nell’essenza, ma con sembianze differenti, finanche nelle speculazioni epistemologiche novecentesche (lo status conoscitivo della scienza naturale moderna, per quanto si possa ammirarne - e magari anche temerne - la potenza manipolativa, è tutt'altro che un problema risolto, e neppure, da un punto di vista filosofico, di poco conto).

Paolo Veronese, Platone, 1560 circa, Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.
Com’è noto, Platone riteneva Parmenide un padre venerando e terribile. Nel Sofista operò il celebre parricidio filosofico. L’argomento di Platone è famoso. Con non-essere non si deve intendere, come aveva fatto Parmenide, la non esistenza, quanto la diversità, l’alterità. Questo non è quello, l’idea di cavallo non è l’idea di uomo, ma ciò non significa che esse non siano. Il “non-essere” è un'espressione che delimita e identifica, non la dichiarazione di non esistenza. Tale parricidio è fondamentale per la sua teoria delle idee (che hanno le stesse caratteristiche dell’essere parmenideo, pur essendo molteplici), con la quale Platone cerca anzitutto di salvare i fenomeni, di dare realtà ontologica al mondo dei sensi (tempo, mutamento, instabilità ontologica ed epistemologica) collegandolo al mondo delle idee (eternità, immutabilità, quindi stabilità ontologica e perfetta conoscibilità). Ma tale collegamento risultò difficile e instabile, e lo costrinse a ricorrere non solo a concetti incerti, ma anche a miti per cercare di giustificare il legame ontologico tra il mondo delle idee e quello dei sensi. Converrà brevemente illustrare alcune difficoltà per rendersi conto in quale ginepraio abbia gettato la filosofia occidentale la dottrina del venerando e terribile eleatino.
Nel Timeo, Platone narra il mito del Demiurgo apparentemente per spiegare soltanto l’origine del cosmo. Il Demiurgo (δημιουργός, artefice, artigiano) viene descritto da Platone (in 29 E) come “buono, e in un buono non nasce mai invidia per nessuna cosa. Essendo dunque lungi dall’invidia, volle che tutte le cose diventassero il più possibile simili a lui” (passo ambiguo riguardo alle motivazioni del dio: quali cose voleva che fossero il più possibile simile a lui? Ma soprattutto: quali bisogni dovrebbe avere un dio, per definizione beato e compiuto? E’ l’ambiguità della forma-mito scelta da Platone a creare questi e altri problemi nella prospettiva "logos-centrica" della filosofia. Forma scelta per porre rimedio, o, forse, eluderne, altri). Così il Demiurgo prende la materia caotica e riottosa e la plasma a immagine e somiglianza delle idee eterne, di cui lui solo, fino a quel momento, s’era beato della contemplazione. Il cosmo uscito fuori dalle mani divine del Demiurgo è un’immagine mobile dell’eterno, unico, completo di tutte le singole rappresentazioni delle idee che hanno dato forma a quella materia caotica, indifferenziata e ostile, perciò, a ogni definizione. Questa materia è uno dei problemi più spinosi non solo della filosofia platonica, ma di tutta la filosofia antica, fino ai neoplatonici. Essa esiste, eppure è inconoscibile, perché la conoscibilità è riservata alla idee e a quegli enti sensibili che recano in sé traccia di esse – che partecipano alle idee eterne. Tale materia non-è, da un punto di vista del logos, perché non ha in sé alcuna traccia di forma intelligibile. E allo stesso tempo è, dal punto di vista ontologico, perché è la conditio sine qua non dell’esistenza del cosmo come immagine ontologicamente degradata, ma pur sempre esistente, delle idee eterne.
Sopra ho scritto che il mito del Demiurgo serve apparentemente soltanto alla spiegazione dell’origine del mondo. In realtà esso ha lo scopo di collegare i due distinti piani del reale, quello delle idee e quello del cosmo sensibile. Platone fu costretto a ricorrervi perché aveva, tra gli altri, da risolvere il problema della partecipazione degli enti sensibili alle idee. Che cos’è tale partecipazione? Una sorta, mi si passi il termine, di commistione dei due piani? Ma come sarebbe possibile una compenetrazione da parte delle idee del piano sensibile, soggetto al tempo - alla generazione e alla corruzione, come avrebbe detto Aristotele – senza che queste perdessero la loro stabilità, la loro “purezza” ontologica? La partecipazione finì per essere ridotta a imitazione. Gli enti sensibili sono simulacri delle idee intelligibili. Come, allora, queste possono essere causa di quelli? Qui entra il gioco il Demiurgo, il trait d’union tra i due mondi, il plasmatore di quella materia che fino al suo intervento se ne stava nel suo caos privo d’ogni forma. Senza di esso non si può render ragione del legame tra il mondo delle idee, che è, e il mondo sensibile, che diviene. Ovvero tra l’eterno, il reale, il conoscibile, e il transeunte, l’instabile, l’incerto. Senza il Demiurgo, Platone sarebbe costretto a dichiarare, con Parmenide, che il mondo dei sensi è illusorio, che non ha alcuna realtà ontologica, e che è folle tentare ogni discorso su di esso, perché soltanto di ciò che è si può parlare senza cadere in contraddizione e, quindi, fare discorsi vuoti di senso e di realtà.
Questo è soltanto un abbozzo, e anche piuttosto grossolano, dei problemi che Platone dovette affrontare per conciliare l’elemento parmenideo con l’esigenza di salvare i fenomeni (senza contare i problemi gnoseologici, che implicano questioni quali anamnesi, immortalità dell’anima, caduta ecc.), per rendere ragione del multiforme ed enigmatico fluire del mondo.

[L'immagine è tratta dalla Web Gallery of Art; le citazioni del Timeo sono tratte da: Platone, Timeo, Bompiani, Milano 2000]

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